recensioni di Di corno o d'oro

L’Unità, 24 maggio 1993

Poveracci da antologia

di Grazia Cherchi

Bando alle lagne: possiamo aggiungere un altro buon titolo italiano ai non pochi che nei primi cinque mesi del '93 sono stati segnalati in queste pagine. E questa volta c’è un motivo in più per rallegrarsi, dato che si tratta di un’opera prima. Fino a poco tempo fa si soleva dire un esordio non si nega a nessuno, oggi le cose sono cambiate e alla narrativa italiana, per via che vende pochino pochino, l’editoria ha drasticamente ridotto il numero di titoli annuali: Comunque stanno per entrare in libreria 4 libri esordienti, Non ho ancora letto i due di sesso maschile in uscita da Theoria e dall’Adelphi, mentre ho letto le due di sesso femminile, I dimenticati di Laura Bosio edito da Feltrinelli, di cui vorrei in seguito occuparmi, e Di corno o d’oro, nella collana "La memoria" (n.275) della Sellerio, di Laura Pariani.

Apprendiamo dal risvolto che la Pariani (classe 1951: applausi. Noi donne non riveliamo quasi mai la nostra età a stampa, e piccola debolezza-civetteria, che ci possiamo tranquillamente permettere, ma è degna di ammirazione l’eccezione Pariani) vive a Turbigo (Milano) e insegna in una scuola superiore e che questo è, per l’appunto, il suo primo libro di narrativa.

Di corno o d’oro comprende nove racconti, ed è il primo ad essere memorabile e a dare giustamente il titolo al libro (ma anche gli altri tutte storie di poveracci meritano di essere letti). E’ un racconto credetemi da antologia di alta pietas, in cui il dato storico ­sociologico, è benissimo impiegato in funzione della narrazione.

La Pariani rievoca la vita di un emigrante lombardo in Argentina, partendo dal 1890, quando ha 35 anni e procedendo a ritroso, fino al giorno della sua nascita, nel 1855, nella valle del Ticino.

Il racconto, oltre a ricostruire in modo poetico e senza un filo dl retorica le bestiali condizioni in cui vivevano, o meglio, sopravvivevano, i contadini di fine Ottocento, le orribili angherie che subivano, la fame che li teneva svegli di notte ("hanno la fame cucita sulla faccia"), il lavoro bestiale dei bambini privati dell’infanzia i parchi momenti d’amore, però ossessivo, del protagonista, il Carlén, zoppo e passionale ("l’amore gli trema in gola, come un groppo"), è straordinario anche come resa linguistica: se la lingua dell’inizio è un felice impasto di ispano-lombardo, man mano che si retrocede nel tempo si fa vieppiù dialettal-lombardo (viene unito il dialetto milanese della zona del Ticino, su cui la Pariani si è particolarmente e amorosamente documentata). Senso di colpa, dolore, nostalgia, amore, tutto è reso con grande forza inventiva. E su ogni cosa domina il rimorso che, si legge nelle ultime righe, a noi mortali distorce continuamente il presente e l’avvenire e, se esistesse, perfino l’eternità. Infine, per spiegare il titolo, diamo ancora una volta la parola a quest’esordiente-rivelazione: "Da piccolo dicevano al Carlén che c’erano due modi di sognare, perché esistevano due porte dei sogni, una di corno e l’altra tutta sbarluscénta d’oro."

Dalla porta di corno passano i sogni veritieri, da quella d’oro i sogni bugiardi.

Grazie al passaparola e all’amico Roberto Rossi, ho potuto leggere subito questo eccezionale racconto, Altrimenti... magari mi sarebbe sfuggito. L’altro giorno, nel mio giro settimanale in libreria, mi sono letteralmente messa le mani nei capelli osservando un bancone grondante di nuovi titoli di cui non sapevo assolutamente nulla. Sta diventando secondo me prioritario il bisogno di individuare i titoli buoni. Troppe volte mi capita di sentire che lettori occasionali, dopo due o tre libri schifosi, hanno per sempre rinunciato alla lettura. Che fare? A cominciare da queste pagine? Una modesta proposta la farò e, se possibile, cercherò di realizzarla qui. Staremo a vedere.

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Nuovi Argomenti, ottobre-dicembre 1993

Il sesso del dialetto

di Aurelio Picca

Non so perché ma quando penso a una scrittrice brava, diciamo brava come Laura Pariani in Di corno o d’oro (Sellerio) cerco, mi sforzo di immaginare, il canto di Calliope o delle Sirene. Ecco, immagino un bel canto di voce impostata, tondo, che non aspetta di catturarci, anzi, ci viene incontro, scusate la bizzarria forse, avanza verso di noi col passo serrato e massiccio che ci è dato vedere nel Pellizza da Volpedo del "Quarto stato".

Ho premesso ciò perché Laura Pariani non ha bisogno che qualcuno le imposti la voce, le assegni le sillabe, le apra lo spartito; no, lei è brava, fa da sé; eppure mi pare di comprendere che in questo suo canto che sopraggiunge a noi, niente sgrana, nulla lacera il nostro udito. Per tagliare l’ellissi voglio dire che il suo canto, cioè la sua scrittura, è una prova letteraria. E lo è tanto quanto tenta di allontanarsene, di proporre onestamente "verità".

Ma come? Obietto immediatamente: con quelle storie sceme, cioè realiste, applicate agli uomini; con quel controllo misuratissimo di polso e testa (infatti); e come?, soprattutto: con il dialetto che salda al centro, ai lati, che zavorra appunto una lingua che altrimenti potrebbe essere soltanto una bella lingua dimagrita. Ma proprio per questo, in virtù della spia del dialetto, la Pariani è brava e sa cantare ma non abbandona sulla pagina i lacerti che il dialetto annuncia promette, e poi non mantiene come dovrebbe. Dunque è così. La materia che la Pariani tratta è incandescente, certo, ma il dialetto che dovrebbe consentirle una vera ispezione della profondità rimane, in fondo in fondo, un desiderio espressivo. Quello che rimane della sua necessità salda la lingua, l’ho detto, la irrobustisce, ma non fa esplodere l’incandescenza. Ecco allora che il dialetto pare aiuti a cantare la lingua; esso solfeggia, non scava; nelle prove minori fascia una lingua soave. Ovviamente non sempre è così: perché Laura Pariani è brava. E comunque non si potrà in nessun modo affermare che l’uso del dialetto è un uso archeologico, seppure si conferma il fatto che esso non faccia scoppiare la letteratura.

Ebbene, però, quando il dialetto strattona il morso e si avvolticchia al racconto, proponendo il sesso quale grimaldello del mondo, allora, evviva, la lingua tutta si fionda in una voragine: "Mi ricordo che al tempo di descarfuiare il melgone, quando noi ragazze stavamo sedute lì in cerchio sotto il portico, chi sulla cadreghìna portata da casa chi su una balia di pàja, qualche sposa diceva battute sul tòrsolo e sulle foglie che bisognava cirar via alle pannocchie; e tutte ridevano, ma io diventavo rossa, perché mi sembravano senza pudore le donne sposate. Così allora ho parlato alla Preziosa e lei, quando mi ha scoltato, mi ha detto che il can barbone non stava indormendo, ma anzi che mi guardava senza farsi capire perché mi amava... A quel punto mi svegliai con la léngua attaccata al palato, per la bocca tutta sciutta e le gambe tutte sudate. Invece era il mepà, che mi tappò la bocca con la mano e poi si sdraiò sopra di me, come un uomo fa con la sospùsa, e mi fece male, ma mi disse che se vusàvo mi strozzava, perché svegliavo le bambine".

Il racconto è molto bello, scritto in prima persona "La morale della Stalla". Lì rompe una qualche attenzione, rompe dico tutte le attenzioni letterarie. Si affonda nel buio. Il canto, il bel canto, non basta più come se quell’unica storia (e non è una ragione riduttiva) incendiasse il libro nella sua, battagliera, logicissima, stessa femminilità.

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Tuttolibri, La Stampa, 11 dicembre 1993

di Alessandro Baricco

Di corno o d’oro è il libro d’esordio di Laura Pariani, edito da Sellerio. Le prime 50 pagine, quelle del racconto che dà il titolo al volume, sono tra le cose più belle pubblicate in Italia quest’anno Le altre 140 lasciano meno il segno, ma sono comunque un bel leggere.

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Il Sole 24ore, 16 maggio 1993

Sogni sapor Ticino

di Ermanno Paccagnini

Con Di corno o d’oro di Laura Pariani, Elvira Sellerio mi pare abbia pescato un bel jolly un’opera prima di nove racconti che, nonostante gli inevitabili scotti, rivela però un’autrice quanto mai interessante. Racconti che si stendono in un arco dal 1875 al 1908, con però il testo iniziale che, attraverso una struttura a piramide rovesciata, accompagna la «ronda dei ricordi» del Carlén in una spirale all’indietro, sino al 1855 della sua nascita e di quel primo sogno, affacciatosi dalla «porta di corno», che gli ha rivelato il dolore dell’intera sua vita a venire. Storie di povera gente: quasi un romanzo per tessere, che dal microcosmo del castanese (un fazzoletto di terra tra Magnago e il Ticino di Turbigo) rilancia voci del dolore di chi subisce (ieri come oggi, lì come altrove); e, insieme, i suoi tentativi di sfuggire ai veritieri sogni della «porta di corno» per attra­versare i bugiardi sogni della «sbarluscénta porta d’oro»: magari attraverso l’emigrazione in Argentina, o la solidarietà contadina delle leghe, o l’atto privato di sottrazione al padrone, o la richiesta di un sussidio... Piccoli atti di una piccola terra consegnata alla dimenticanza della Storia; spesso non più di semplici mozziconi spuntati dal racconto di un nonno o da un brandello di documento rivisitati dall’interno nella prospettiva, nella parola, nel flusso narrativo del protagonista, con conseguente impasto linguistico-sintattico: e col risultato d’una parola che scivola continuamente dall’italiano al dialetto (il milanese «forestiero» delle rive del Ticino), alla sua italianizzazione come alla deformazione dialettallitanica, all’ispano­lombardo dell’emigrante (nel racconto del titolo), alla proverbialità contadina. Ove il segno distintivo risiede in una addolorata, malinconica poesia che nasce dalla mescolanza di sogni e dolore e da una freschezza di racconto che la cultura che presiede alla costruzione linguistico-narrativa sa non penalizzare. Certo, non manca qualche compiacimento, certa insi­stenza (o reticenza) nell’impasto. Ma anche quando si può pensare al primo Consolo per l’incastro di lucido delirio e referto medico della Morale della stalla o di racconto e documento della Volta della Moretta, oppure si affaccia il dazio a moduli veristici (Tre gozzi), la Pariani ha la sua cifra nella pietas dell’Eurosia, nella forza della Moretta o nel magico del Giuppén.

Libro compatto, dunque; con, fuori registro, solo Le guerre di Ada, lettera al sin­daco di una maestrina incinta che si dimette dalle istituzioni, da un «mondo che non va» e da questa vita che è tutta «un pendìzio». Fuori registro quanto a lingua, perché stesa in un quasi burocratese sentito da Ada come estraneo perché necessitato dal destinatario, e però umanizzato dal dolore; e quanto a punto di vista: perché il racconto posto a metà libro, riveste un ruolo “ideologico”; la cifra dello sguardo di chi, pur altro, si sente comunque vicino a quel mondo per la comune condizione di dolore determinata da una vita che per i poveri è tutta «un pendizio»; quella vita che è tutta “una gran stalla, sciùr dutùr”.

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L’Espresso, 13 giugno 1993

Storie di poveri nella bassa lombarda - Quel dialetto che sa di terra

di Angelo Guglielmi

Di corno o d’oro è una raccolta di racconti di Laura Pariani, una scrittrice alle prime armi di sicuro interesse. Si tratta di undici racconti di ambiente lombardo che propongono altrettante storie vere, non nel senso che sono realmente accadute (non è escluso) ma che hanno la stessa perentorietà d’evento delle storie realmente accadute e il loro stesso aspro spessore. D’altra parte è la stessa autrice a confessare che spunti per le sue storie sono stati i ricordi di bambina, le parole ascoltate dai nonni, le canzoni popolari, questo o quel documento d’archivio di cui è venuta in possesso, ecc. ecc. Sono storie e personaggi di ambiente popolare e contadino (lo stesso al quale l’autrice appartiene), storie di poveri, di sfortunati, di gente che ha sempre stentato a campare, che lotta con la vita.

Caratteristica della Pariani è di tenersi lontana dalla narrativa di indagine sociologica come anche da quella di denuncia. La povertà è assunta come dato esistenziale, quasi come un prova (una garanzia) della condizione umana. I poveri sono tutt’uno con la realtà, con l’imminenza del suo peso, giacché da essa non è concesso loro di prendere alcuna distanza, dunque con essa coincidono e in essa si identificano. La pasta della realtà costruisce non solo i loro corpi ma anche i loro pensieri e i loro sentimenti ed è una pasta dura, aspra, dolorosa.

La Pariani è davvero gagliarda a mettere in piedi, come fosse uno scultore, i suoi personaggi. Sa scegliere lo spazio giusto in cui farli crescere come fossero prodotti della terra sa intrecciarli secondo rapporti suggeriti dalla necessità più che dalla convenienza (rapporti più spesso di scontro e certo brutali); sa dare loro una parola forte ed efficace.

I poveri della Pariani parlano un lingua cruda ed essenziale. Una lingua continuamente interrotta da espressioni dialettali alle quali è assegnato il compito di segnare e marcare la verità dei parlanti. Dunque una lingua il cui ruolo espressivo è affidato al dialetto mentre al linguaggio comune sono delegati i passaggi puramente informativi. Il dialetto è quello della bassa Lombardia: un dialetto che ha l’odore troppo intenso delle terre superconcimate della pianura padana e il colore rosso sporco del cielo di Milano. La Pariani non nasconde i suoi debiti verso il grande Porta: è lui che le ha insegnato che la scrittura prima che dire è dar corpo alle cose.

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L'Indice 1993, n.11

di Lidia De Federicis

Escono libri pieni di storie e personaggi, che restaurano le strutture della narrativa, ma non senza novità nei procedimenti formali e nelle scelte tematiche. C'è una ricerca di scambio illusionistico tra documento e finzione, tra finta cronaca, memoria personale, antropologia, filologia, tra la vita e il romanzo. Appoggiandosi alla suggestività dei reperti d'archivio e alla nuda forza dei grandi eventi collettivi, le emigrazioni, le fami, le ribellioni, oltre che a una linea lombarda di espressionismo e realismo, Laura Pariani ricrea miserevoli vite contadine in un periodo specifico, la fine dell'Ottocento, e in un territorio esattamente ritagliato, la valle del Ticino. Nata nel 1951, insegnante, esordisce con la raccolta di nove racconti, "Di corno o d'oro". Anche Silvana Grasso, siciliana di Giarre, traduttrice dal greco antico, è al primo libro di racconti, dieci pezzi in "Nebbie di Ddraun…ra" recupero di una Sicilia contemporanea e arcaica alla maniera di Verga, ma un Verga stravolto in grottesco e innamorato delle parole. La Pariani cerca nell'impasto dialettale e nella voce dei narratori interni (il povero emigrante e la povera ragazza di campagna, l'ubriacone, la scioperante, la maestrina umanitaria, il medico positivista) la forma tipica di una cultura e di un ambiente sociale, geografico. La Grasso ha altri intenti e, manipolando lessico e sintassi, si costruisce una lingua speciale, con dialettalismi, arcaismi, classicismi, di registro alto e letterario, sempre ridondante, sempre eccessiva. Come i suoi personaggi, che sono anch'essi fuori norma, segnati da malattie e deformità o da smodate ossessioni: un uomo-femmina e una donna-maschio; un Nen‚ pescatore dal labbro "libbrinu", leporino, che si sfrena nel possesso della barca; la sciagurata Consolina che per desiderio di uomini e in odio al padre consuma il patrimonio; la nana Cicala che recita preghiere a pagamento e (caso estremo) ha un unico, forte legame d'affetto con il suo verme solitario; tutti sperduti nelle nebbie di magie e destini ingovernabili. Laura Pariani e Silvana Grasso sono appena agli inizi. Elena Gianini Belotti ha alle spalle un lungo esercizio professionale nell'educazione e nel giornalismo, una produzione saggistica abbondante in cui fa spicco il titolo che l'ha resa nota, quel "Dalla parte delle bambine" (1973) carissimo al pubblico degli anni settanta. Un po' in margine ha tentato i generi narrativi, trasferendo le sue competenze dall'analisi dei modelli culturali che agiscono nella famiglia e nella società al romanzo ("Il fiore dell'ibisco", 1985) e al racconto ironico di vite immaginarie. "Adagio un poco mosso" propone sette storie di donne, donne vecchie che nella fase ultima dell'esistenza, quando sembra obbligato il triste decorso biologico, trovano vie di fuga grazie ai piaceri minimi della solitudine o a quelli arditi e trasgressivi dell'immaginazione, dell'orgoglio. Rovesciano le aspettative ragionevoli; e anche il racconto punta sulla tecnica del rovesciamento, catturando le attese del lettore e protraendole fino a una conclusione che spesso è aperta, a sorpresa. Nel pezzo più ampio e romanzesco, "Stenodattilo primo impiego" la protagonista Anita dall'incontro casuale in autobus con certa Fiamma, entrambe ormai irriconoscibili, è sospinta a ripensarsi com'era una volta, ragazzetta in un ufficio romano del dopoguerra, presa in mezzo ai traffici degli adulti e attratta contro voglia in una complicità sessuale mal vissuta; ora, appostata davanti alla casa di Fiamma, diventerà una presenza minacciosa, la costringerà a uscire, ad attraversare la strada per venirle incontro. Qui il racconto finisce. Che cosa avrà da dire Fiamma ad Anita? Quali segreti confesserà? Può darsi che il lettore, stuzzicato da quaranta pagine di intrighi accennati e incompiuti, resti deluso. Ma naturalmente Elena Gianini Belotti ha detto quanto voleva dire. Le sue donne hanno vite condizionare dal senso di colpa, la colpa - cito Dacia Maraini - "di essere fatte in un modo strano, con una zona buia e vergognosa nel mezzo del corpo". La vecchiaia infine le emancipa dalla soggezione, e per loro fortuna non dalle emozioni. Gianini Belotti scrive racconti a tesi, più attenta al ritmo della storia che a quello della prosa, più interessata al piano culturale che a quello stilistico. Con lei il tipo della vecchia maliziosa, nobilitato dalla tradizione fiabesca e tradotto in schema abbastanza meccanico, funzionale, da miss Marple, entra in un tessuto narrativo fitto di notazioni sociologiche e psicologiche, che si modella sul nostro presente e ne riproduce la complessità con sostanziale ottimismo. Davvero la vecchiaia è cosi? È così la vecchiaia delle donne? Ci piacerebbe poterlo credere. La tematica femminile, in questo libro di gradevole lettura per tutti, ha un'enunciazione scoperta, diretta. Ha una diversa presenza, meno esplicita ma disseminata e compenetrata con una posizione mentale, nei libri della Pariani e della Grasso. Già è diverso il taglio della materia, che non isola storie di donne. Quattro protagonisti maschili e sei femminili nella Grasso, cinque e quattro nella Pariani: insieme mostrano il lato sommerso e sporco della vita, l'offesa delle gerarchie sociali, le ferite della famiglia, la fatica delle nascite e delle morti, i desideri frustrati, la materialità sofferente e nascosta - vergognosa, appunto - del corpo. L'attenzione al quotidiano, che è considerata convenzionalmente una prerogativa della scrittura femminile, qui non ha caratteri rassicuranti; non comporta n‚ gesti quieti n‚ conforto di interni domestici o normalità di ordinate consuetudini, bensì molta e brutale violenza situata nel disegno di un mondo premoderno che conosce solo rapporti di elementare sopraffazione. In "Nebbie di Ddraun…ra" (titolo enigmatico, finché non apprendiamo che la "ddraun…ra" è il drago femmina) Silvana Grasso associa la materia torbida all'artificiosità della scrittura, con un'oltranza espressiva che sconcerta il lettore e lo distrae dal racconto. Il filo conduttore della compassione risulta invece evidente nel raccontare di Laura Pariani. Il suo microcosmo, ricostruito con puntigliosa fedeltà ai dati ambientali, tende subito a farsi immagine dell'esistenza com'è dappertutto. "Desorden vasto", dice il Carlén che è emigrato in Argentina e ragiona in ispano-lombardo. Bisogna pur aggrapparsi a qualcosa, a sogni "di corno o d'oro", veritieri o bugiardi: "e così senza accorgerci trasiàmo la vita, dìsum dumàn cume vèss i padrùn del temp, gent de cicculàta!", dice il dottore filosofo. La sentenziosità dei personaggi s'adegua alla concretezza della loro condizione storica e intanto serve alla Pariani, specie in alcuni pezzi ("La morale della stalla", "Le guerre di Ada", "'l dutùr de la Cassinetta") per punteggiarne il fraseggiare con tocchi solenni e farne emergere l'idea dolorosa della condizione umana da cui nasce il libro.

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Di corno o d'oro, Palermo, Sellerio, La memoria n. 275, 1993, 1994²

Per i singoli racconti vedi la Bibliografia