recensioni - interviste

La Macchina Tigre

La Macchina Tigre

 

Intervista a Laura Pariani e Nicola Fantini

 

 

Cosa significa per voi scrivere per ragazzi? 

 

NICOLA: Era una mattina come tante dell’anno scolastico 1970-71: c’era un po’ di fermento nella classe 3B - grembiulini bianchi le femmine, blu i maschi, tutti col colletto bianco inamidato e il nastro verde distintivo della scuola - perché la maestra si era assentata per qualche minuto. Al suo ritorno era accompagnata dal direttore, il che non faceva presagire niente di buono. Nel silenzio che era improvvisamente calato sulla classe, lei cominciò a parlare in un tono pieno di orgoglio e velato da una certa soggezione, presentandoci uno sconosciuto che notammo solo in un secondo momento: era un signore dall’espressione simpatica, un atteggiamento che fugava tutti i nostri timori iniziali.

“Bambini”, annunciò la maestra, “questa mattina è venuto a trovarci Gianni Rodari!”. Gianni Rodari, in visita alle scuole elementari della sua città natale, Omegna!
Ricordo con inconsueta chiarezza quell’incontro, quanto fu divertente e appassionante, tanto che quasi cinquant’anni dopo posso recitare a memoria alcune delle filastrocche che ci lesse quel giorno.

È un privilegio per me essere nato e cresciuto a Omegna come Gianni Rodari: ho potuto frequentare i vicoli e i cortili che furono i suoi stessi territori di gioco; ogni giorno ai miei occhi si presenta ancor oggi l’orizzonte di lago racchiuso fra le montagne, che accompagna il Barone Lamberto... Forse è per questo motivo che anche nella mia attività di scrittore ho dedicato particolare attenzione al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, in cui realtà e fantasia sono una cosa sola e tutto è possibile: uno spazio avventuroso mai scontato e perciò sorprendente, dove i conflitti e le loro soluzioni sono sempre chiari, almeno finché non si scontrano con il mondo degli adulti.

Scrivere per ragazzi (e di ragazzi) offre l’opportunità di esplorare le possibilità creative dell’adolescenza, riproponendo quel mondo senza tempo in cui tutti, anche gli adulti, si possono riconoscere. È il motivo per cui romanzi come I ragazzi della via Pál di Ferenc Molnár o La guerra dei bottoni di Louis Pergaud continuano a esercitare un fascino irresistibile sul nostro immaginario, anche se viviamo nell’era digitale e non protremmo essere più lontani dall’Ungheria del 1906 e dalla Francia del 1912.

 

 

Cos’è, per voi, la paura? Dov’è la vostra definizione di paura nella Macchina Tigre?

 

LAURA: Abbiamo discusso a lungo io e Nicola su ciò che significa paura per noi. Ci siamo trovati d’accordo sulla paura fisica che si prova nei confronti di qualcuno o qualcosa che ti può fare del male. Faccio un esempio. Mi è capitato - anni fa all’alba, su una strada deserta del parco del Ticino – di trovarmi davanti all’imprevista un cinghiale femmina coi suoi quattro cuccioli: situazione pericolosissima, non solo perché quella bestia era grande tre volte me e dotata di zanne aguzze, ma anche perché poteva interpretare ogni mio gesto come un possibile pericolo per i suoi piccoli... Ovvio che avessi paura. Solo uno stupido non la proverebbe. Che ho fatto? Mi sono ricordata di una cosa che mio nonno, quando stavo in Argentina, mi disse riguardo agli animali aggressivi: “Non guardarli mai negli occhi: per loro lo sguardo rappresenta una sfida”. Così mi sono voltata lentamente e mi sono allontanata passin passetto, costringendomi a non guardare indietro; il gruppo di cinghiali mi ha sorpassata senza toccarmi... 

Poi però ci sono paure completamente diverse – che forse potremmo definire soggettive – che non sono legate a un pericolo reale: per Nicola quella dei ragni, per me quella degli scorpioni. In effetti la puntura di un ragno delle nostre regioni raramente provoca più di un bruciore; lo stesso vale per gli scorpioni che in estate riempiono i buchi dei muri della nostra vecchia casa in riva al lago. Eppure, anche se sappiamo che non sono proporzionate alla realtà, non riusciamo a farcele passare: la vista di ragni e scorpioni ci provoca un’incontenibile ansia mista a ribrezzo, facendoci sussultare e strillare.

Per entrambi le paure più sconvolgenti sono comunque quelle che proviamo nei sogni o nei dormiveglia, quando le difese razionali sono più basse e il tempo (il nostro essere adulti) viene annullato: è lì che facciamo la tremenda esperienza di quanto la vita sia fragile e un pericolo sconosciuto possa essere in agguato.

Così succede anche per Didi, il nostro protagonista: non teme i temporali, i pipistrelli e le serpi – vivendo in montagna c’è abituato – eppure la vista di un grosso ragno autunnale potrebbe farlo svenire. Ma le paure più profonde in lui sono messe in moto soprattutto dai ricordi: ha perso la mamma, ha dovuto cambiare ambiente (dalla città alla montagna), vive con una zia arcigna che ha scarsa attenzione e considerazione per i bisogni di un ragazzo. Perciò la maggior paura di Didi è quella di soffrire. La vita l’ha fatto diventare un solitario che ragiona e saggia le sue forze. Vorrebbe sapere in anticipo cosa gli succederà, per prepararsi a affrontare i pericoli: per questo costruisce la sua Macchina-Tigre, capace di pronostici. Quando però capisce di non farcela, si ritrae, cerca una tana in cui essere lasciato in pace e ricaricarsi. Ottimo metodo, quando una situazione inattesa suscita troppe angosce.
   Per sua fortuna Didi sa ascoltare le sue paure, quelle “vocine” dentro il suo cervello, che lo mettono in guardia da incontri spiacevoli e dal prendere strade sbagliate.
   Io penso di avere anch’io dentro di me una “vocina” che viene da lontano, forse dall’infanzia, quando mi sono state raccontate le favole con streghe cattive e foreste da cui non si riusciva a uscire; quando mi venivano minacciati castighi (per esempio, essere rinchiusa in uno sgabuzzino) se avevo comportamenti scorretti.
   Non ce l’ho con chi nei seculòrum ha continuato a narrare favole paurose ai “pollicini” di tutte le epoche. Anzi, sono convinta che tutte le storie di paura aprano nella nostra mente un grande spazio immaginativo, spingendoci a trovare soluzioni su come affrontare il pericolo – cosa farei io se mi trovassi in questa situazione?... Perciò le storie di paura rappresentano, anche per i più piccoli, un utile apprendistato alla vita che non è assolutamente rosa-e-fiori.

E ancor di meno me la prendo coi sogni paurosi – quelli che mi fanno rivivere l’esperienza di perdermi, di incontrare i malvagi e di essere castigata... Li considero la mia personalissima “macchina del tempo”, capace di farmi risentire bambina.

 

 

Da dove viene l’idea per questo libro?

 

Ha iniziato Nicola scrivendo alcune pagine sulla sua adolescenza in montagna. Ci siamo chiesti se potevamo trasportare quella vicenda ai giorni nostri: in fondo quell’ambiente non è molto cambiato nel corso dei decenni; e i bambini e ragazzi che ci si trovano a vivere sono ancora tanti.

Il personaggio di Didi è perciò stato costruito poco a poco, facendo riferimento soprattutto alle nostre preadolescenze, dando a Didi qualcosa che è successo a noi: la passione per la lettura, la ricerca costante di un rifugio in cui rintanarsi quando i grandi ci castigavano, la difficoltà di farsi capire dai grandi.

 

Dove si svolge la storia?

Siamo subito stati d’accordo su una storia che si svolgesse lontano dalla città. Un ambiente di mezza montagna, rustico, che non offre ai ragazzi la ricchezza di esperienze di posti di ritrovo/ negozi/ modernità; ma forse per questo più avventuroso, meno scontato. È il mondo di una campagna povera che entrambi conosciamo bene.
In particolare sono le montagne tra cui adesso viviamo, intorno al lago d’Orta.

 

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La Macchina Tigre, con Nicola Fantini, Milano, Pelledoca, marzo 2018