recensioni di Milano è una selva oscura

La Stampa, Tuttolibri, 6 febbraio 2010

C’era un barbone in piazza Fontana

La simbolica parabola del vecchio Dante, nato quando tuonavano i cannoni di Bava Beccaris,morto nel dicembre ’69

di Lorenzo Mondo

Milano è una selva oscura, così intitola il suo ultimo libro Laura Pariani, e tale appare la città al suo protagonista. Non potrebbe essere diversamente per un barbone di settant'anni, magagnato nel fisico e tallonato dalla morte, ma egli è dotato di una seconda vista che prescinde dalle ovvie afflizioni del suo stato.

Qui si parla infatti di un uomo colto: nato trovatello, è stato avviato a buoni studi dalla famiglia di adozione; nelle sue molte vite ha gestito una libreria antiquaria, ama Dante, specialmente quello risciacquato in lingua meneghina da Carlo Porta, e ne ha adottato il nome. Ha perfino scritto «quatter patanflan di poesie» che lui stesso si è affrettato a dimenticare.

La scelta di abitare in Barbonia City arriva dopo innumerevoli traversie: il carcere per la vendita di libri licenziosi, un breve autoesilio in Sudamerica, una condanna al confino per inaffidabilità politica. E Milena, che è il tenero frutto di un matrimonio malassortito, muore nell'eccidio di bambini provocato a Gorla da un bombardamento alleato. Ma al fondo di tutto c'è la refrattarietà a una vita normale, una indistinta voglia di ribellione contro soprusi e illusioni.

Adesso il vecchio Dante - siamo alla fine degli Anni Sessanta - si aggira per Milano, dal centro alla periferia, campando di espedienti e di qualche rara benevolenza (un lattaio anarchico, un trattore pietoso), cercando un anfratto per dormire, nella più scempia e laida compagnia di vagabondi. Filosofeggia sull'abbrivio di poesie, canzoncine e proverbi, si commuove nel ricordo di una infanzia che sembra rappresentare per l'uomo una condizione ideale e si applica a denudare le trasformazioni volgari e avide della sua città: «l'asfalto che copre i vecchi canali, tutto sto presente di macchine e fragori, dagli sbarlusci del neon nelle recenti boutique alla smania di americanità che si respira perfino nel parlare». E registra anche, nella sua erranza, il malessere della condizione operaia, gli scioperi e gli scontri con la polizia, le avvisaglie di una proterva militanza «nera».

E' un racconto rimuginante e rapsodico che si svolge attraverso i soprassalti della memoria ed ha come filo conduttore le occasioni offerte dalla strada e dal giro dell’anno. L'autrice introduce ogni stagione (le quattro sezioni del libro) con un brano tratto dall'almanacco portiano, El lava piatt del Meneghin ch'è mort. Ed il riscontro vale a sottolineare, da un lato la distanza dalla Milano di allora, ancora fragrante di umori naturali, dall'altro la compensazione residua offerta a chi scrive dall'energia del dialetto.

Questo principe dei barboni procede con la schiena dritta e la sua coraggiosa allegria fino all'esito finale, quando piazza Fontana viene sconvolta e insanguinata da una terribile esplosione. La piazza è proprio «il punto preciso in cui posare l'orecchio per terra di modo da sentire battere il polso della città. Il luogo dove si incontrano tutte le strade che il Dante ha percorso nella sua vita camminante».

E' una conclusione che lascia qualche perplessità, non per se stessa ma per il ritaglio storico temporale operato dal romanzo, che può suonare gratuito se non diminutivo. Forse Laura Pariani ha trovato suggestivo collocare la vita del suo personaggio tra due estremi che contano da un punto di vista, per così dire, libertario: è nato nel 1899, all'indomani delle cannonate di Bava Beccaris, e muore nel 1969, l'anno marchiato dalla strage di piazza Fontana.

Sia come sia, se il Dante fosse campato qualche anno in più, avrebbe avuto di che confondersi (e Laura Pariani di che spendersi) per la sciagurata deriva di un certo ribellismo, davanti a una Milano deturpata da nuovi, criminosi attentati.

Resta, al netto della lettura, il gusto di un dialetto esemplato sapientemente sui migliori scrittori lombardi. Nonostante sia a tratti impervio (sarebbe stato utile un glossarietto) riverbera la sua densa, corposa espressività sugli interni e gli esterni di un mondo popolare, rappresentato nella sua dignitosa povertà e nella sofferta degradazione. A dirla tutta, la vera storia del Dante è nella lingua che pensa e che parla

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il Giornale, 7 febbraio 2010

Nella selva oscura di Milano

di Luca Doninelli

Vengo meno a una regola di buona educazione (già trasgredita in passato), quella cioè per cui non sta bene che uno scrittore italiano vivente scriva di un altro scrittore italiano vivente. Se lo faccio è per parlare, da semplice lettore appassionato, di un libro importante appena uscito presso Einaudi: Milano è una selva oscura di Laura Pariani.

Il romanzo, o come lo si vuol chiamare, racconta le stagioni di un barbone milanese nell'anno 1969, con i suoi incontri, il suo vagabondaggio per Milano e il suo dolore, che è come un pedale, ossia un sottofondo continuo, che accompagna tutte le parole e tutte le immagini del libro. Diviso in quattro sezioni secondo le stagioni, appunto, a imitazione del capolavoro vivaldiano cui la scrittrice non manca di rendere omaggio in appendice al libro, Milano è una selva oscura presenta, per ogni sezione, una struttura tripartita, come nella forma-sonata, con tanto di titoli presi dalla musica: allegro non molto, largo, adagio, e così via.

Parto da queste notazioni perché ci sono libri che rivelano la loro natura prima nella forma che nel contenuto. Del resto, nel contenuto l'autrice sceglie di far prevalere ciò che di norma viene nascosto, vale a dire l’emblema: gioca, insomma, a carte scoperte. C'è un protagonista di nome Dante, di professione barbone; c'è una selva oscura, la Milano del titolo; c'è tutto un passato di persona colta, letteratissima, che si perde in un presente infame. E, soprattutto, c’è la lingua, un sontuoso pastiche con prevalenza lombarda, che nonostante le facili somiglianze esteriori io vedo apparentata più a quella del Manzoni che a quella di Gadda o di Testori. È l'inquietudine a essere manzoniana più che gaddiana. È il genere di sussulto da cui le parole nascono.

La prima impressione, e guai a soffermarcisi troppo, è di un libro artificiale. Ed è vero, qui l'artificio è voluto ed esibito, come nel barocco. Ma chi l'ha detto che l'artificiosità è sbagliata? Qui è giustissima. Come fu giusta la scelta - non meno artificiosa - del Manzoni, che tutto fece fuorché un romanzo «spontaneo», men che meno «naturalista». E come Manzoni scelse il suo complesso artificio perché potesse erompere il grido non soltanto suo, ma della storia intera, così Laura Pariani sceglie uno degli anni più emblematici, quel 1969 che dalle manifestazioni studentesche o sindacali (qui presenti a stralci, come pezzi di manifesto strappato) condurrà fino all’orrore di Piazza Fontana, e un barbone di nome Dante in perenne contatto con la perduta gente, per raccontarci la deriva del nostro mondo, delle sue speranze e, non da ultimo, della letteratura.

Per fare questo ci vuole una lingua molto elaborata, complessa ma pietrosa, niente a che vedere con l’ossessione gaddiana della nascita o lo stravaccamento teatrale di Testori. Qui la lingua è tutta dritta, statuaria pur nella variabilità dei codici perfino all'interno della stessa frase. Perché si tratta di dire quello che la letteratura, quello che il sistema della letteratura non dice più. Si tratta di raccontare una solitudine, una lontananza da tutto, un rifiuto dei riflettori, una antispettacolarità. Ma per farlo ci vuole uno spettacolo che sia però ob-scenus, contrario alla scena, e perciò osceno. Osceno non come una fellatio praticata da una bellissima ventitreenne, ma come le mutande di un barbone, il pus delle sue ferite, la sua carne marcia.

Laura Pariani è persuasa, come lo sono io, che la letteratura vada trovata lì. Questo è l'aut-aut di Milano è una selva oscura. Occorre decidersi: o con lo spettacolificio infinito o con la solitudine, o a far la fila per salire sulla giostra o a chiacchierare con questo Dante qui, davanti a un fuoco acceso in un bidone.

E poi, per finire, com'è interessante la Milano di questo libro! Dura ma con dentro tutta la sua poesia. Con un senso quasi perfetto della scelta dei particolari (memorabili il negozio dove si riparano bambole - forse omaggio al dimenticato Antonio Pizzuto e al suo capolavoro - e la descrizione della salumeria per sciùr), perché Milano si rivela sempre nei particolari.

Un libro importante, politico, duro, anarchico, un giudizio netto sulla letteratura che si scrive oggi in Italia (e non solo). Che nella durezza non fa mancare il suo amore a una città che spesso fa di tutto per non farsi amare.

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il Corriere della Sera, 7 febbraio 2010

Le stagioni di Diogene, barbone colto, che si aggira per Milano

di Ermanno Paccagnini

Sembra tornare alle origini, Laura Pariani, con Milano è una selva oscura. Dico «sembra», perché, pur rientrando in terra e lingua lombarda, il luogo d'azione è Milano, limitandosi a richiamare quali esperienze del protagonista Dante le altre sue ambientazioni topiche: l'Alto Milanese tra Magnago e Nosate come luoghi d'infanzia, l'Argentina come terra di fuga. Una diversità che si coglie nella stessa ricca presenza dialettale: non più quello che Tessa chiamava «milanes furestee», ma il milanese cittadino. La continuità è invece la prospettiva dal basso e del «deviante» sulla realtà. In questo caso a farsi raccontare, ma soprattutto a raccontare in prima persona con quella sua lingua tra italiano e vernacolo arricchita da citazioni, filastrocche, storielle, modi di dire popolari è chi all'anagrafe risulta Diogene Colombo di N.N., cui l'adozione presso una famiglia agiata ha consentito una cultura che l'ha portato a essere anche libraio antiquario. Di qui la musica d'un testo costruito con tempi e movimenti delle Stagioni vivaldiane (aperte da epigrafi tratte dal portiano El lavapiatt del Meneghin ch'è mort e partendo però dall'Inverno; con chiusa in Autunno aumentato d'un quarto movimento: Silenzio), ma soprattutto coi ritmi d'un Dante Alighieri (di qui il soprannome) sia in originale che nella versione del Porta. Un Dante infernale, come ricorda il titolo; ove i tre primi tempi (Inverno, Primavera, Estate) mi paiono ricalcare l'originale nell'avvicinare per gradi il lettore, nel quarto, a una Milano tra Dite e Malebolge. Perché è la Milano del 1969 la città della «selva oscura» (oscurità perdurante ancor oggi quanto a responsabilità); che il settantenne Dante, partendo dalla Barbonia City in cui vive da cinque anni, percorre (e ho ricordato l'Arpino di Randagio è l'eroe) vagabondando per strade centrali e periferiche e visitando «le stazioni delle viecrucis dei poveri cristi». Un Dante che vive la sua realtà di barbone con la dignità di chi non chiede l'elemosina né cede ai ricatti spirituali dei refettori della San Vincenzo, ai cui occhi di novello «poer Bongee» «la vita normale, vista dalla strada, appare come una serie di illusioni». È la Milano dilaniata da scioperi, contestazioni studentesche, cariche della polizia, supponenza e menefreghismo, ma nella quale compaiono anche le bombe (ed è su quella del 12 dicembre che si chiude Silenzio), quella che Dante osserva. Ed è forse il solo momento in cui Dante s'allontana da una vita vissuta come fughe: imposte (abbandonato alla nascita, ma pure da moglie e figlia; confino a Ponza; carcere); cercate (la «Merica»); indotte (il sanatorio). Dentro un presente e un nuovo «brutto e volgare» che egli non ama, sul quale spesso si riaffacciano momenti e figure del passato, ricordi di «fantasmi», di cui conserva il ricordo nella «borsa degli Avanzi» che ha sempre con sé. Un romanzo che, diversamente dal duro Dio non ama i bambini, opta per il chiaroscuro. Che Laura Pariani domina con sagacia nella lingua. In cui qualche riflessione del Dante poteva essere limata. Ma dove spiccano in particolare figure e momenti del passato. E la sofferente e catturante galleria dei diversi e dei personaggi di Barbonia City.

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L'Unità, 14 febbraio 2010

C'era Dante a Piazza Fontana

di Oreste Pivetta

Dante e la Divina Commedia, Carlo Porta, persino Vivaldi, Milano e Piazza Fontana con la sua bomba e i suoi morti e ancora Dante, un altro Dante, che fa il barbone, l'homeless, e, a settant'anni continua a girovagare, finché capita sul luogo della strage. Milano è una selva oscura, ultimo romanzo di Laura Pariani, scrittrice che esordì nel 1993 con il bellissimo Di corno o d'oro, potrebbe parlare della città d'oggi, affumicata e criminale. Invece si torna a un quarantennio fa, seguendo il povero Dante, figlio di enne enne, come si diceva una volta, ex venditore di libri antichi, cultore dell'Alighieri, di cui si è dato il nome, e di Carlo Porta, di cui si è dato la lingua. Un barbone colto, ironico, nostalgico alle prese con un mondo che non riconosce più se non attraverso piccoli segni di resistenza, un mondo che si rovescia quel nero dodici dicembre

Dante, al secolo Diogene Colombo («Colombo, come tutti gli illegittimi di Milano, perché sulla porta dell'Ospizio degli Esposti era raffigurato il simbolo caritatevole dello Spirito Santo; Diogene perché l'impiegato che stava ai registri quel giorno doveva essere un filosofo burlone»), classe 1899, è andato in trincea sul finire della prima guerra mondiale e non gli è mancatp neppure il confino fascista, tradito dal suo spirito libertario, ha conosciuto l'emigrazione in Sudamerica e frequentato decine di donne, con il cuore e con amore, dopo la sventura di un matrimonio tramontato e di una bimba uccisa (altra storia milanese: sotto le macerie della scuola di Gorla, primo bersaglio dei bombardamenti alleati della seconda guerra mondiale). Dante possiede solo un sacchetto, la borsa degli Avanzi, Avanzi con la A maiuscola, misteriose memorie di una vita. Che finirà quel tragico e memorabile giorno: un'altra vittima di piazza Fontana, lui casualmente travolto da una macchina, soccorso dall'autista perché le lettighe sono necessarie altrove, scaricato in una roggia per non dover dare spiegazioni. Dante imparerà in quella roggia che la morte non è paura e che anche di là c'è musica. A consolazione di una vita errabonda ma dignitosa, cioè vissuta con rispetto di se stessi e degli altri, rivendicando valori che la macchina della modernità (della cosiddetta modernità) va cancellando.

Abbiamo letto tanti libri su piazza Fontana, nessuno che ci arrivasse così, con gli occhi bassi di chi cerca e raccatta cicche di sigarette e s'incurva per i dolori delle ossa, colpa dell'umidità e del freddo.

Il viaggio attraverso Milano è negli inferi come se Dante fosse Virgilio ma nella versione del Porta: «A mitaa strada da quel gran viacc...»... Leggo la traduzione italiana di Carla Guarisco da una edizione economica delle poesie di Carlo Porta, pubblicata negli anni settanta da Feltrinelli: «A metà strada di quel grande viaggio che facciamo uno alla volta al mondo di là mi sono trovato in un bosco scuro affatto, senza un sentiero da poter seguire: soltanto a pensarci mi sento venir fifa, né un bosco così facile da ritrarre, nero, vecchio, pieno di spini, sassi, intrichi, peggio che quello della tregenda delle streghe...». Allo stesso modo, nera, piena di spini, di sassi, di intrichi è la città di Dante, anche se mi pare che il suo sentimento non sia la fifa, la paura, ma qualcosa che sta tra il rimpianto, la desolazione, la rassegnazione.

LA MUSICA DI VIVALDI

Il peregrinare di Dante segue le quattro stagioni. Laura Pariani ha in mente la musica di Vivaldi e nei capitoli si alternano allegro, adagio-presto, allegro non molto, presto, eccetera eccetera fino al silenzio della morte. Carlo Porta torna con il suo «inferno» in varie pagine e nei brani ad epigrafe di ogni stagione, tratti dal Lava piatt del Meneghin ch'è mort, il Lava piatti del Meneghino che è morto.

Il racconto del barbone Dante è un incontro di italiano e milanese, di italiano che scivola nel milanese e viceversa, o di italiano che si impenna nella poesia del milanese, come se s'andasse in salita tra i ricordi, le impressioni e la memoria di filastrocche e ritornelli infantili e di detti popolari. L'incontro dà luogo a pagine bellissime, dure e senza consolazione, se non per quella sensazione di pace che si scopre infine nella morte.

Milano è una selva oscura mi ricorda certi ambienti di Emilio Tadini e attraverso Tadini anche di Celine e naturalmente del grande Testori. Commuove soprattutto chi ha nostalgia di un paese, che poteva sperare di migliorarsi, anche attraverso il ragionare libero del lingéra. Non credo che piazza Fontana abbia rappresentato, come s'è scritto in abbondanza, la «perdita dell'innocenza», ma è di fronte a tutti che fu una svolta nel peggio.

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La Gazzetta del Sud, 19 febbraio 2010

Un novello Dante nella selva oscura delle vie di Milano

di Giuseppe Amoroso

Nel dormitorio di Bande Nere si affollano solo gli «strampalati lunatici, i randagi per afflitti non onorati», i derelitti di una povertà «in caduta libera». Da lì ogni mattina esce il Dante e arracando nella neve va verso il Naviglio recitando sottovoce una filastrocca. Nello specchio di una vetrina si scopre «pallido»; ma in grado di sollevarsi dalla degradazione della sua vita, poiché è «uno che sa raccontare» e ha una buona cultura.

Nel suo girovagare, i luoghi di Milano gli aprono percorsi di altri tempi in un continuo ricambio di presente e passato che ora avvampa di frantumi, di storie, ora si immobilizza in una stranita posa del tempo.

La pagina chiara anche nei frequentissimi inserti dialettali, elaborata ed elastica nella marea fiammante delle immagini favorisce un teatro di riflessi, ma pure, di colpo, dirada il complotto delle ombre facendo avanzare profili nitidi e sottoponendo i pensieri del protagonista a trame di ragionamenti.

Con "Milano è una selva oscura" (Einaudi, pp. 183) Laura Pariani sorprende la narrazione in emisferi di consolazione e ostilità, secondo le abitudini e la risentita psicologia di Dante: da un lato, il piccolo universo non corrotto dei tempi passati, dove abita la "realtà di chi non può essere diverso da ciò che è stato"; dall'altro, quello moderno, preso dalla "frenesia di sfrollare tutte le care ricordanze" e dalla" smania di americanità che si respira persino nel parlare".

Lo sguardo del barbone coglie ovunque figure in movimento, le corteggia in fuggitive pose naturali e negli incavi di un turbamento, ne blocca la dispersione nell'indistinto, fa di un grumo di emozioni qualcosa di più concreto, tangibile della realtà stessa che passa con i rumori, i colori, un debole raggio di sole, la nebbia, un giornale sgualcito in un cestino, un "rosario" di ricordi, le stazioni della "via cruis dei poveri cristiani", i paesaggi annacquati nella rassegnazione.

Refrattario, naufrago, "uscito da tutte le storie" e "come se fosse passato attraverso uno specchio e finito in un mondo all'incontrario", cresciuto a "pane e classici", il Dante stende sul suo solitario viaggio per la città un manto di citazioni letterarie, mentre Laura Pariani con cautela si mimetizza nelle parole del suo protagonista e mediante un filtro ilare e malinconico fustiga un paese che "si scandalizza di ciò che non capisce".

Transitano i quadri di un'esistenza nel "trasognare sulla musica degli anni che corrono via", ma in tanta tristezza resta un po' di luce negli occhi, "come quando alla fine di un film commovente sfilano i titoli e ancora dura la musica". E continuando in una caliginosa aria di disfatta ecco brandelli di frasi, cori di anonimi, androni bui, spazi desolati e "milioni di storie" che tutti i giorni restano inconcluse.

Sovrasta "il lento tic tac del tempo", fino al momento conclusivo in cui il Dante si accorge che" quello che normalmente si pensa della morte è una favola".

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Mucchio, febbraio 2010

Un novello Dante nella selva oscura delle vie di Milano

di Gianluca Veltri

Dedicato "a tutti quelli che non si imbrancano in greggi", il nuovo lavoro di Laura Pariani racconta le giornate di un barbone nella Milano imbruttita del 1969. Seguendo una cadenza vivaldiana, le quattro stagioni si avvicendano dall'iniziale inverno fino all'autunno finale. Cominciano nel dormitorio delle Bande nere, dove trovano ricovero i randagi, quelli che hanno dato le dimissioni dalla maniera di vivere comune, naufraghi per sempre. Dante è il nostro protagonista, ha settant'anni e non è stato sempre un senzatetto. Il groviglio indurito della memoria gli riporta indietro spezzoni di vita passata. La sua esistenza è fatta di cose misere, una sigaretta composta con i mozziconi raccattati per terra, la gentilezza ricevuta da un ferroviere che gli offre un caffè dopo una notte all'addiaccio alla stazione. Ma anche le aggressioni dei balordi, le botte delle guardie, persino il rischio d'essere derubato - di che, poi? - da qualche cioccaton. Li si vede poco, quelli come Dante: la paura e la vergogna li ricacciano negli angoli bui della città: un giardinetto spelacchiato, la recinzione di un mercato coperto, il di sotto di un grande camion.

Ma Dante è uno istruito, ha studiato, ha lavorato in una libreria, ha avuto una famiglia in un passato sfocato. Le svolte del destino, qualche scelta sciagurata, una stella avversa ed eccolo qui, a ripetere il rosario dei ricordi crudeli. Nella sua vita camminante, Dante vede e sente i rumori di una guerriglia costante, i cortei studenteschi, i manganelli polizieschi, gli scioperi. "Milano è una selva oscura" nella quale Dante vaga senza alcun Virgilio, ma con dignità e con una grazia tutta sua. Intanto Armstrong approda sulla luna - è il 1969 - e i neri eventi italiani convergono verso la strage di Piazza Fontana.

La Pariani non indulge in alcun sentimentalismo; il tono del suo romanzo, sebbene dolente, è scoppiettante. Infarcendo l'italiano di milanese, in una mescidazione bastarda e gioiosa, con sorprese e invenzioni lessicali secondo la lezione del Pasticciaccio di Gadda, la scrittrice alterna forme linguistiche e registri, prosa e poesia, l'andatura del racconto e il ritmo della filastrocca.

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l'Avvenire, 20 febbraio 2010

Negli inferi urbani con il Dante, barbone milanese

di Massimo Onofri

Si potrebbe cominciare da qui: «Disoccupazione, disaccordi coi parenti, abbandoni, disagio di vivere: sono tanti i motivi che buttano la gente per strada. La ruota del destino cigola, questione di un attimo - io non so ben ridir com'io v' entrai - e si diventa barboni, dopodiché non c'è possibilità di ritorno al mondo di prima». La metafora dantesca, in quel verso citato quasi esattamente e per inciso («Io non so ben ridir com'i v'intrai»), è evidente: e bisogna svilupparla in tutte le sue articolazioni. Diventare barboni è come smarrire la retta via: il che significa entrare per la porta dell'inferno. La selva oscura, sin dal titolo, è Milano. Ma la lingua per raccontarlo, questo viaggio senza ritorno, sarà - diciamolo subito - quella pastosa e plebea del più grande milanese ottocentesco insieme a Manzoni (in questo romanzo, a dir la verità, un po' maltrattato), e cioè Carlo Porta, la cui traduzione dantesca dei primi versi della Divina Commedia trionfa già a pagina otto del romanzo. Diventare barboni, insomma: che è quel che accade al Dante alla bella età di sessantacinque anni, dopo tre anni e due mesi scontati «senza benefici della condizionale», per "vilipendio della pubblica morale" (ma c'erano già stati due anni di confino a Ponza, per "vilipendio dello Stato", con sentenza del 20 aprile 1937). Il Dante: all'anagrafe Diogene («Perché l'impiegato che stava ai registri quel giorno doveva essere un filosofo burlone»), Colombo («Come a tutti gli illegittimi di Milano, perché sulla porta dell'Ospizio degli esposti era raffigurato il simbolo caritatevole dello Spirito Santo»), nato il 17 gennaio 1899 - uno dei ragazzi del '99 mandati al massacro dopo Caporetto - e abbandonato «sui gradini di San Simpliciano». Difficile sottrarsi al fascino di questo personaggio e della sua speciale filosofia del deragliamento esistenziale: mentre reperisce cicche da offrire poi agli altri deragliati, o dispensa saggezza citando in latino, o magari perlustra il mondo affidandosi all'olfatto («Quasi il concentrato di tutta la sua sensualità d'antan»), per regalare al popolo dei normali poesie («Ché fare poesia è ascoltare finché il cuore al s' cioppa no») e calembour. Difficile sottrarsi al fascino, così d'altri tempi (e lontanissimi dai nostri tristi e scombuiati), della sua libertaria e pacifica, persino allegra, ribellione ad ogni ordine costituito, della sua coscienza di classe naturale. Milano, l'antica e fraterna Milano, imbruttisce d'anno in anno («Altro che Milàn col coeur in man! Ball! Qui bisogna comprare anche l'aria. Gente taccagnona, cacastecchi, ghe vén via nò gnanca la pèll di pioeucc»), sempre più blindata e ostile, segregata nella sua nuova insensibilità: sino all'apocalisse delle bombe di piazza Fontana, quando anche il destino del Dante si compirà. Stavo per dire: si compirà atrocemente. Ma è poi davvero così? Diventare barboni, naufraghi per sempre, vuol dire anche uscire dalla storia, "da tutte le storie". Per approdare precocemente ad una grande verità: «Ché la vita normale, vista dalla strada, appare come una serie di illusioni». Sicché la morte, quando arriverà, potrà apparirci, come effettivamente appare al Dante, non proprio come ci si aspetterebbe.

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Il Sole 24 Ore, 21 febbraio 2010

Vita e destino di un perdente

di Giovanni Pacchiano

II suo nome è Diogene Colombo detto Dante. Sì, Colombo, come il nome sovente dato ai trovatelli. E appunto neonato, nel lontano 1899, la sua mamma lo ha deposto sui gradini deila chiesa milanese di San Simpliciano. Col corredo di un biglietto in cui la donna si giustifica, lamentando l'estrema indigenza.

Son passati 70 anni e successe tante cose, troppe. Adottato da brava gente, ha scontato in prima persona, poco più che ragazzo, gli orrori della guerra sul campo di battaglia. Poi, la vita è sfilata in un attimo; emigrato in Argentina, rientrato in patria, al confino per antifascismo, sposato e padre, ha fatto anche il libraio antiquario, prima di perder tutto: a partire dalla figlioletta, morta sotto i bombardamenti.

Ora, anno 1969, una data che suona ancor oggi sinistra nel ricordo della bomba di piazza Fontana, lui trascina la sua vita di barbone senza casa e senza famiglia. Senza nulla se non il passato. Ha studiato, da ragazzo, sino al diploma magistrale, e il suo amore è il poeta del quale porta il nome e cita sempre i versi. Anche quello, una creatura di fuga.

Appartiene, Dante Colombo, l'umile eroe del nuovo e struggente romanzo di Laura Pariani, Milano è una selva oscura, alla razza dei perdenti. E da subito lo vediamo alle prese con la quotidiana necessità di sopravvivere: mangia avanzi trovati per strada o si affida alla compassione di qualche ristoratore. Per dormire fa come può: qualche volta alla Centrale, qualche volta alle Bande Nere, al pubblico dormitorio. O a quello del Lazzaretto. Qualche volta, quando cerca il sorriso, nulla più, di una donna, in un pullman abbandonato.

Le gengive che si gonfiano, i denti che dondolano: «gli ultimi anni di vagabondaggio hanno mutato l'espressione del suo volto»; spalle gobbe, «cencioso fatto e finito». La città come dantesca «selva oscura» è grigia e tetra. Lui cammina per le strade, eterno, disperato flaneur, senza requie. Il Naviglio, il Castello, il Cordusio, nomi cari al suo cuore. Il quartiere Garibaldi, coi gradini della chiesa dove la morte non l'ha voluto, perché era «inscì piscinin», così piccolo!

È imbruttita Milano, e «nessuno che per strada ti guardi, nessuno che ti saluti, tutti a correre a casa a trincerarsi dentro». È stagione di scontri tra studenti e polizia e compaiono scioperi e cortei. C'è paura nelle strade. Dante è anarchico e sta con la povera gente, ma è travolto da un mondo che non sa più decifrare. Non gli resta che colloquiare con se stesso, nel dialetto materno, rammentando i frammenti della sua amara vita; mescolandoli coi versi dei poeti tanto amati: Dante, Villon, Foscolo, Porta...

Sarà il giorno della bomba, nel «veloce buio di dicembre» e nel «cuore esatto di Milano», l'altro luogo di un appuntamento «aggiornato per settant'anni».

Porta e Tessa, l'immenso Tessa: gli antenati della tradizione lombarda, alle spalle di questo romanzo, lirico e non sdolcinato; nostalgico e fiero nella sua non implicita accusa a una civiltà che si è scordata (ieri e ancor più oggi) di diseredati e vinti. Né c'è ombra di manierismo negli inserti dialettali: comprensibili per i vecchi milanesi, se ancora esistono.

Quanto agli altri, che si sforzino: lo si fa per Camilleri e per il suo siciliano; perché mai non si dovrebbe per la Pariani?

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La Repubblica, 7 marzo 2010, p. 15 sez. Milano

Dante è un barbone e la città un Inferno

di Roberto Cicala

«Com'è imbruttita Milano» si lamenta un barbone che tutti chiamano Dante e che, «nato dentro la cinta dei bastioni, dove l'ha mai vista da bambino una porta seraa?». Subito il dialetto offre i suoni schietti, e gli odori, a una storia di emarginazione negli anni del boom dove a un libraio antiquario ora vagabondo restano solo amici nel dormitorio: il Tiramolla, il Verzao il Pètt-de-suora. Con ombrello sgangherato, cappello e borsa a tracolla ci fa vagare in una città divisa in due tra «fratelli e nemici»: i primi, i tram con panche di legno; i secondi, i navigli asfaltati da «mortorio grigio» o il centro che di sera s'illumina solo di insegne pubblicitarie. E' la discesa in un Inferno metropolitano e l'archetipo dantesco è chiaro fin dal titolo, Milano è una selva oscura, dell'intenso romanzo di Laura Pariani. Gli incontri (la grassa Tettôn, l'anarchico Parafina della latteria-rifugio, gli studenti in sciopero) si confondono coi ricordi: commossi quelli dell'infanzia con i «lunghi nastri sottili dei tajarin fatti in casa» e felice il ritmo cadenzato da filastrocche e detti popolari con cui si guadagna un bicchierino. In questa via crucis la prima stazione è la Centrale, dove Dante, che come il poeta del suo soprannome si sente in esilio da una società che l'ha rifiutato, non riesce più a dormire. E il lettore continua a seguire il «camminante» urbano dentro una Milano protagonista e metafora di un'esistenza osservata con gli occhi dei vinti che «non sanno più piangere» né apprezzare le quattro stagioni in cui è scandita questa piccola sinfonia letteraria densa di rimandi e contaminazioni (da Porta a Tessa, da Loi a Testori e Fo) in un'atmosfera tra memoria e attualità, cifra stilistica della scrittrice nativa di Busto Arsizio che vive sul lago d'Orta. Siamo nel 1969 e se in piazzale Loreto torna alla «Milano grama nella sò camisa nera», capita in piazza Fontana quando «il rumore dell'esplosione impietrisce i passanti» si trova per terra, ferito, poi su un'auto sbagliata che non va all'ospedale ma tra «gelo e scighéra», dove l'inferno di urla e rumori si dissolve nel silenzio. E' una fine drammatica ma dignitosa e libera, come il suo vagabondare a testa alta. Tanto che gli sembra di ritrovare gli amici d'un tempo con carte e bianchino in mano: «Genti, stee alégher...»


Il Mattino, 2 aprile 2010

Un viaggio al termine della notte milanese

di Giuseppe Lupo

Raccontare una città come Milano è sempre un'impresa difficile, si corre il rischio di ripetere parole già dette, di usare immagini che sanno di non autentico. Una nuova lettura ce la consegna Laura Pariani con Milano è una selva oscura: un romanzo, va detto subito, che anziché procedere con il passo disteso di una promenade diventa un viaggio celiniano fino al termine della notte, un lungo monologo, che accarezza le corde del diario interiore e della sapienza popolare.

Siamo al bivio tra benessere e fantasmi della crisi, dentro il cuore pulsante di una metropoli che pare stia per smarrire se stessa, distratta dai miraggi della vita comoda, dove non c'è posto per anime in pena, miserabili periferie. Ma il protagonista del libro, è Dante, un clochard un po' particolare, picaro, filosofo, anarchico, dicitore di filastrocche e gran conoscitore di fonti letterarie. Intorno a questa figura, che è l'alfa e l'omega della vicenda, il romanzo manifesta tutte le sue potenzialità: è il cammino di un uomo alla ricerca di se stesso, è il riepilogo di una vita e di un'epoca, ma anche una moderna odissea cittadina.

Qui sta uno degli aspetti originali: narrare una stagione dove trionfa il denaro dalla parte dei poveri e adottare uno stile che, contaminando dialetto e lingua, posiziona la Pariani nella grande tradizione lombarda. Come la Dublino di Leopold Blomm, infatti, anche la Milano di Dante è un luogo dove è facile perdersi, un bosco senza luce, soprattutto in un anno cruciale per la storia, il 1969, che registra le prime avvisaglie della violenza politica, culminate, come sappiamo, nella strage di Piazza Fontana.

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Milano è una selva oscura, Torino, Einaudi, Supercoralli, gennaio 2010