recensioni di Patagonia blues

Stilos, 6-19 giugno 2006

Fin del Mundo

di Benedetta Centovalli

"E così, tra questo fumo del tabacco nero e l’odore d’aglio delle tortillas in vendita sul bancone, ritorno indietro negli anni, all’amarezza con cui presi per la prima volta nel ’66 il treno per la Patagonia, adolescente solitaria, lontana le millanta miglia dal mio paese lombardo, diretta verso un paese sconosciuto al Fin del Mundo". Dopo avere disseminato nei suoi racconti e nei suoi romanzi tracce di memoria adolescenziale di un viaggio argentino che le cambiò bruscamente la vita, Laura Pariani, come "destinata", approda al reportage cominciando proprio dalla Patagonia, la terra magica e disperata dove quindicenne aveva raggiunto il nonno mai più ritornato alla sua famiglia d’origine. Patagonia Blues (Effigie, 2006) è un libro non solo dedicato a regioni lontanissime del sud del sud del globo, su cui si sono oramai accumulate storie e leggende di viaggiatori, criminali, eccentrici e solitari, ma soprattutto una resa dei conti con la propria storia, una specie di rimessaggio del proprio passato vagliato alla luce di una maturità che ha imparato a accettare che i conti non tornano mai. In un correre d’anni lungo e faticoso Laura Pariani ha lavorato a che questo "resto" che non quadra potesse cambiarsi da dolore impotenza vivo senso di colpa ad altro. Così questa Patagonia fabulosa e piena di vento che lei fa rivivere nelle sue pagine diviene motore infinito di storie, affabulazione. Lo scrive più volte nel corso dei capitoli dedicati alle diverse regioni di questa estremità infinita che da Bahìa Blanca, la porta d’entrata, va alla Tierra del Fuego. L’approdo sta lì, nel raccontare, nella capacità di ridare vita e voce, forse giustizia, a chi non c’è più o a chi non saprebbe farlo seguendo il filo nero e attorcigliato della lingua.

Come Resurrezione di Tolstoj era il libro che la ragazzina quindicenne stringeva tra le mani in quel viaggio enorme di quarant’anni fa, Dino Campana accompagna oggi con i suoi versi dolci come il vento senza parole i primi passi nella pampa patagonica. "Col viso sognante", "niente vermi dell’anima", Laura descrive il compiersi di questo viaggio, già perché proprio per toglierli quei vermi uno per uno dal grumo dei ricordi la scrittrice si muove, ché il suo non è un andare ma un destino di ritorno. Sarà tutto il sangue sparso nello sterminio indio per quella terra tragica a parlare forte, insieme alla magia di una cultura che pur sopraffatta resiste qua e là negli usi e nell’oralità. Allora la Patagonia si fa più leggera e sinonimo di terra delle mille e una notte, del raccontare ragione ultima della vita. E la bocca della vecchia Eufrosina, dai lineamenti mapuches, che sgrana fagioli all’ombra di un platano, fa ritornare alla mente all’autrice le storie con cui dona Rosa, l’anziana mapuche che viveva con il nonno in Neuquén, coloriva le serate con uomini-tigri, bambini-colibrì, donne-lepri, animali che si incarnavano in esseri umani. Nella Patagonia, terra di Zenone e gloria delle sue tartarughe, il passato non è passato e questa compresenza del tempo, questa infinita ripetizione, siempre lo mismo – anche per effetto di un paesaggio grandioso e fuori dimensione, deserto piatto o vegetazione che si adatta alle temperature glaciali – acquieta il pensiero, medica un poco le ferite, le asciuga, le rimpicciolisce a misura più sopportabile. E per non smettere di sognare bastano le parole di un attempato bevitore di birra seduto in un bar di Ushuaia: "Di storie la Tierra del Fuego è piena. Esta isla tiene la mayor concentraciòn de historias del mundo. Almeno mille storie al metro quadro."

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L'Unità, 24 luglio 2006

In Patagonia, dove anche le balle sono vere

Michele De Mieri

La Patagonia venne avvistata, e acclusa così alla geografia di un mondo ancora da mappare, da Magellano nel 1520 e divenne ben presto sinonimo di terra limite, ultimo lembo del mondo prima della sua fine. Citata da poeti, prediletta da esuli europei di ogni nazionalità, rifugio di banditi, terra di allevatori di pecore e di marinai, ma soprattutto, come avevamo già appreso da tutta la letteratura recente che l’ha raccontata – Bruce Chatwin, Francisco Coloane, Paul Theroux, Luis Sepulveda, Osvaldo Soriano – terra di storie, spazio geografico dove narrazioni di eccentricità umane e mitologie soprannaturali germogliano in mirabolanti aneddoti sussurrati davanti a un mate.

In questo contenitore di storie e di spazi immensi è andata a raccogliere impressioni di viaggio Laura Pariani, scrittrice versata in almeno metà delle sue nazzazioni in cose argentine. In Patagonia Blues le impressioni del viaggio presente si sommano, correggono, ampliano, un viaggio fatto dalla stessa Pariani adolescente, una quarantina di anni addietro.

La partenza dell’adolescente tra paure dell’ignoto e del lungo viaggio ritornano alla mente della scrittrice ora esperta di quelle terre e dei personaggi che vi incontrerà a ogni sosta. E’ una sorta di lunga notte quella che viene fuori da questo viaggio sentimentale, una notte scandita dai tanti personaggi incontrati che, come nel benniano bar sotto il mare, accostano la scrittrice affinché essa ne ascolti la storia mentre un immancabile calafate rotola sulla terra brulla, sospinto dall’eterno vento di quelle parti. Il nonno italiano che la giovane Laura andò a cercare decenni addietro sembra far capolino nei tanti vecchi omerici che la Pariani incontra adesso: tutti sembrano quasi riconoscerla, se non come la ragazza di allora certamente come la destinataria delle loro storie, spessissimo delle balle colossali ma magistralmente dette davanti al bancone di un bar o al fuoco di una estancia.

La Patagonia, a cavallo tra Cile e Argentina, è nel presente del racconto della scrittrice una terra pacificata ma che ad ogni angolo, a ben guardare, porta i segni del sangue che ne ha sporcato il suolo: lo sterminio dei fueginos, gli indios autoctoni, da parte di coloni inglesi semicriminali (una sterlina a scalpo era il prezzo di mercato per un indio morto), l’epopea evangelizzatrice dei missionari salesiani, le carceri di massima sicurezza, in Cile come in Argentina, usati prima per i criminali comuni e poi per i prigionieri politici.

Quella attuale è una Patagonia assalita da un certo tipo di turismo che cala a Ushuaia o al Perito Moreno, ma che fuori stagione recupera intatto il fascino di cent’anni fa. Partiti i frettolosi estimatori del Fin del Mundo a chi resta e ha pazienza vengono regalate storie di animali mitologici, delle gesta per nulla eroiche dei tumbiadores – una sorta di scrocconi di professione – delle scorrerie di banditi anarchici che volantinavano contro la proprietà privata, delle usanze degli indios Yaganes che avevano un precetto fondamentale: "Non uccidere chi ti sta guardando negli occhi", valeva per uomini e animali. Un comandamento che non era stato sposato affatto da un rifugiato tedesco, tale Martin Bauer alias Martin Bormann, l’ultimo incontro cupo e impregnato di sangue altrui nella Patagonia di straordinari contaballe, resa con passione e dilicatezza da Laura Pariani.

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Patagonia blues, Milano, Effigie, Stelle filanti, maggio 2006

Per i singoli racconti vedi la bibliografia