recensioni di

Il piatto dell'angelo

La Repubblica (ed. Firenze), 16 giugno 2013

Quelle partenze senza ritorni

Passato e presente dei migranti

Pariani spazia dagli italiani diretti in Argentina alla storia di una badante in arrivo dalla Bolivia

di Fulvio Paloscia

Ieri era dall'Italia che si emigrava. Erano soprattutto uomini, destinazione «La Merica»: Peppino, Vittore, il Togn. Se ne andavano via per cercare un lavoro che qui non c'era. Per disertare il servizio militare. Per starsene lontani dalle guerre. Abbandonavano famiglie che poi non avrebbero mai ritrovato. Madri, mogli, figli. E laggiù si risposavano perché sapevano che non sarebbero mai tornati, e i cari lasciati in patria diventavano un groppo in gola senza mai lacrime. Oggi, invece, arrivano in Italia dal mondo povero. Sono soprattutto donne, destinate a fare le badanti, destinate ad una vita di minestrine, pannoloni, corpi in disfacimento e niente sorrisi. Ma il sentimento della lontananza è lo stesso, medesimo il vuoto che non può essere colmato da nessun surrogato dell'affetto familiare.

Ieri e oggi. "Ieri è oggi". Con questa frase s'intitolano alcuni capitoli che cadenzano Il piatto dell'angelo, romanzo in cui Laura Pariani torna su un tema a lei caro: quello, appunto, dell'abbandonare la propria patria. Numerate a stabilire una scansione cronologica, queste parti della narrazione incrociano la ritualità dell'emigrazione italiana di una volta con l'immigrazione dei nostri anni, la storia di una folla silenziosa che andava e che viene s'intreccia con quella familiare della Pariani: un nonno partito per l'Argentina, una madre che decide di andarselo a cercare portandosi dietro la figlia e sconvolgendo i codici dell'espatrio, declinati sempre al maschile. Ma c'è anche Lita, la protagonista silenziosa come un fantasma dell'altra parte del romanzo. Pietro e Marina, marito e moglie che non si parlano più, tra di loro la coltre gelida della crisi e delle recriminazioni, l'hanno assunta come badante, in Italia. Ed è un viaggio in Bolivia, nel paese di origine della donna, là dove Lita ha lasciato madre, famiglia, figli, in un villaggio di pioggia e nebbia che si affaccia sul Titicaca (lì il mito ha localizzato il giardino dell'Eden), che l'uomo e la donna finiscono per interrogarsi sul loro essere abitanti distratti di una vita di segreti, bugie, di sentimenti repressi.

Si possono raccontare le radici? Se lo chiede l'autrice in una delle pagine più belle del romanzo, domanda che in realtà attraversa tutta la sua produzione fin dagli esordi. Qui, ne Il piatto dell'angelo però, Laura Pariani cerca più che altrove una «lingua dell'esilio» che unisca insieme il passato con il presente. Lo fa senza rinunciare all'inconfondibile aspetto materico del suo stile, eppure le trame che legano i diversi sensi della parola «espatrio» sono fili sottilissimi, quasi invisibili, che il girare una pagina può imprevedibilmente spezzare; un'evanescenza così volatile che la narrazione a stento riesce a fermare col nero dell'inchiostro. Perché questa è soprattutto una storia di assenze: il piatto dell'angelo occupava la parte di tavolo destinata a chi era emigrato, e che le famiglie apparecchiavano e riempivano di cibo nella speranza di un ritorno. E il ritorno è ciò che non si racconta in questo libro. E' la parola che manca al vocabolario di quella speciale, irreversibile lontananza.

↑ TOP


Il Corriere della Sera, 6 luglio 2013

Elzeviro «Il piatto dell'angelo» di Laura Pariani

PATRIE LONTANE: A CASA DELLA BADANTE

Nell'intreccio s'inseriscono storie di molte migrazioni anche italiane: da e verso le Americhe

di Cesare Segre

Si esce dalla lettura di questo suggestivo romanzo (Laura Pariani, Il piatto dell'angelo, Giunti, pp. 136, 12) con due immagini simmetriche: eserciti di emigrati, per lo più uomini, ed eserciti di immigrati, per lo più donne. Il percorso è sempre lo stesso: dall'Italia ai Paesi americani di lingua spagnola, dai Paesi ispanofoni all'Italia. Diversi i tempi, perché l'emigrazione maschile è più antica. Le immagini militaresche dei due eserciti sono frutto di condensazione, dato che poi l'immigrazione si distribuisce in molti anni, si differenzia secondo epoche e casi personali. E allora le immagini dei due eserciti possono esser viste in profondità e per qualche emigrato o immigrato si passa dalla statistica al caso personale, raccontando le sue vicende familiari.Direi che Laura Pariani, con una costruzione molto raffinata, si sia fissati tre livelli di un approfondimento che è anche scavo psicologico: prima il livello statistico, in cui ogni immigrato o immigrata è un numero entro un fluire complessivo; poi il livello esemplare, dove un episodio specifico è preso nel suo valore simbolico; infine il livello di storie ad ampio raggio, che ci trasporta nel pieno della realtà e della narrazione. E la Pariani ci lascia anche intravedere le migrazioni interne nell'America latina, che spesso si rivelano dei trasferimenti dalla povertà alla povertà.In effetti, la cerniera del volume, che taglia verticalmente l'orizzontalità dei flussi migratori, è la storia di Lita, immigrata in Italia dalla Bolivia per fare la badante. La figlia e il genero milanesi della «signora», in viaggio di piacere, hanno la curiosità di individuare la casa, nell'altipiano andino presso il lago Titicaca, da cui Lita giovane è partita. L'individuazione della casa è concomitante a un guasto della macchina, che costringe i milanesi a trattenersi molto più a lungo del previsto presso gli involontari ospiti. Nel viaggio si rivelano le crepe di un matrimonio, ma si prende anche contatto, attraverso i discorsi degli ospiti, con miti e riti precolombiani, entrando in un mondo magico, nel quale la Grande Madre governa il corso delle cose, mentre dalle viscere della terra giungono i bisbigli dei trapassati. E l'inferiorità culturale dei locali si rivela una ricchezza. Ancor più quando la vecchissima matriarca muore d'improvviso, e i discorsi sulla morte si sbrigliano.Le narrazioni inserite sono tutte dolorose, perché l'emigrazione è una decisione disperata che opera, spesso per sempre, uno strappo da luoghi e persone cari, e che di solito realizza un miglioramento molto più modesto di quello vagheggiato. E i continui, talora bruschi salti temporali tra passato e presente sono messi in evidenza col semplice ricorso agli avverbi ieri e oggi. Tutto il libro può essere definito una fenomenologia della distanza: le famiglie si spezzano nei molti casi in cui il coniuge emigrato cessa di comunicare con la famiglia, e non di rado se ne fa una nuova, o anche solo quando un corrispondente si stanca di confezionare lettere menzognere, per vantare un benessere che non ha, una ricchezza che non è riuscito a conquistare.I lettori della Pariani sono abituati al suo italiano insaporito da qualche lombardismo, come sgagnoso o sbarluscente, magari in forma di proverbio («oh signor di puaritt, che quell di alter al gh'ha i curnitt»), che qui incastona anche parole e frasi dello spagnolo. Si tratta, più precisamente di voci ed espressioni d'uso argentino, allusione a vicende personali della scrittrice, cui nel testo ci sono riferimenti. Il ricorso alla lingua straniera ha motivazioni ambientali, e anzi sentimentali, perché questi immigranti ed emigranti ravvivano il loro discorso con esclamazioni e frasi native, consapevoli che la lingua è la nostra patria, che la portiamo dentro e in qualunque parte del mondo ci troviamo le chiediamo di confortarci come un'amica.Il titolo del romanzo è una bella sintesi: il posto dell'angelo, nelle feste del Sudamerica, viene tenuto libero per qualche viandante che giunga, o ritorni se emigrato, da lontano. Una straziante abitudine, una speranza che non cesserà mai.

↑ TOP


Leggendaria, settembre 2013

NEL SEGNO DELL'ASSENZA

di Maria Vittoria Vittori

Quest'ultimo romanzo di Laura Pariani Il piatto dell'angelo è di una bellezza e di una verità struggenti - e qui bellezza e verità sono indistricabili, come raramente accade. Di fronte a un libro come questo, viene voglia di chiedersi, una volta di più e pur con la consapevolezza dell'inutilità di tale domanda, come mai non se ne trovi traccia non dico nelle classifiche dei libri più venduti (sebbene la sostanza di questo libro sia popolare nel senso più autentico del termine) ma neppure nelle terne o cinquine dei premi letterari. Appare evidente, una volta di più, che la buona letteratura viaggia quasi esclusivamente sui binari delle lettrici e dei lettori appassionati. Tornando a quella sapiente miscela di narrazioni corali, dislocate su diversi piani temporali, che aveva già sperimentato in Quando Dio ballava il tango, Laura Pariani ha composto quello che non è solo, a mio avviso, il più bel romanzo della stagione letteraria ma anche il suo miglior romanzo. E questo perché alla sua attenzione estrema per le ragioni degli ultimi - come sono, in ogni tempo e in ogni luogo, i migranti - ha unito stavolta la difficile ricerca di una ricomposizione con il suo vissuto familiare, con i suoi affetti dolorosamente segnati, come quelli di molte altre persone, da una storia di migrazione e di assenza. L'assenza è per sua natura indicibile come da subito avverte, confusamente e dolorosamente, la bambina cresciuta insieme ad una madre incattivita dall'abbandono del padre, partito per la "Merica'' nel 1926 e mai più tornato. L'assenza dunque richiede, per poter essere messa in scena, una solida ed elaborata struttura, come ben sa quell'ex bambina che, a distanza di tanti anni e di tante esperienze, vuole aver ragione dell'indicibilità di quel dolore ereditato da sua madre. Struttura solida, ma al tempo stesso a maglie larghe, capace di far defluire la realtà con il peso dei suoi sogni e dei suoi detriti, capace di accogliere una pluralità di voci: vengono dunque predisposti, nel romanzo, due percorsi principali, collocati rispettivamente sull'asse del tempo e dello spazio (l'Italia/l'America) e due storie individuali che viaggiano parallele, intervallate dalle storie dei migranti di ieri e di oggi. C'è il percorso di una figlia alla ricerca dell' origine di quel buco nero di assenza che ha condizionato la vita di sua madre, e il percorso di una coppia milanese, Marina e Piero, che durante un viaggio in Sudamerica intraprende una deviazione per andare a trovare i parenti di Lita, la badante della mamma di Piero. L'anello di congiunzione che salda strettamente i due piani del racconto è indicato nel titolo: è quel "piatto dell'angelo" che si preparava, in omaggio all'assente, nelle famiglie di quell'Italietta povera a cavallo del Novecento; è il piatto che la madre tredicenne della scrittrice getta a terra, in un impeto irrefrenabile di rabbia verso suo padre, disperso in Argentina; è il piatto che si ritrova, a distanza di molti anni e dall'altra parte del mondo, in quella povera casetta dell'altopiano boliviano dove vivono i familiari di Lita, dispersa a Milano per fare la badante. Le tante storie spezzate degli italiani in "Merica" s'intrecciano a quelle delle tante donne sudamericane in Italia: contadini, lavoratori stagionali, operai i primi, badanti in perpetuo traffico con la malattia e la morte le altre; e tutti, ieri come oggi, guardati con diffidenza e ammalati di nostalgia. E su tutte queste storie così simili nella loro orditura sociale di povertà, di bisogno e di emarginazione eppure così diverse nelle loro peculiari sfumature umane, si alza forte una voce, finora poco ascoltata, che è quella di chi resta. «Chi parte perde, chi resta perde tondo», si legge nel libro: parole di saggezza popolare, ma anche di grande verità psicologica. Chi parte è spinto da una motivazione, da un'urgenza, sia pure disperata, ma chi resta è condannato all'inerzia dell'assenza. Così la rabbia della madre della scrittrice trova un corrispettivo nell'aggressività della figlia di Uta, Carmen Rosa, appena adolescente e già con una bambina in braccio a cui offrire latte e risentimento. Ma per spezzare la catena di questo risentimento, che a volte trova il suo veicolo privilegiato proprio nel rapporto tra madre e figlia, non c'è migliore esorcismo della scrittura: ed è così che, attraverso la vibrante architettura sonora di questo romanzo - costituita da innumerevoli e misconosciute voci che reclamano ascolto, ognuna con le sue parole d'infanzia, i lontani echi del dialetto, i frammenti di proverbi, leggende e canzoni - la scrittrice riesce finalmente ad entrare in comunicazione con la figura materna, ormai definitivamente assente, e a prepararle - con un affetto più forte e maturo ora che ha attraversato le molteplici tempeste del migrare - il suo piatto dell' angelo.


Corriere del Ticino, 2 ottobre 2013

TRE VICENDE DI EMIGRAZIONE CHE SI INTRECCIANO

Il nuovo libro di Laura Pariani spazia tra passato e presente

di Renato Martinoni

In occasione delle feste, in casa di chi era partito per il mondo, usava un tempo apparecchiare un piatto in più sulla tavola. Inevitabile che restasse vuoto ma, chissà, l'emigrante poteva tornare proprio quel giorno, senza alcun avvertimento: guai a non fargli trovare un segno cordiale di accoglienza. E poi il posto vuoto si riempiva, almeno, di un'ombra: quella di chi, lontano fisicamente, stava poi lì con tutto il suo peso di ricordi, di attese, di parole sfumate e di nostalgie.

Da questa consuetudine viene il titolo dell'ultimo libro di Laura Pariani. Chi conosce l'opera della scrittrice sa che si muove fedelmente fra due mondi, a volte separati, a volte interconnessi: l'Italia padana (specie quella contadina di un tempo, con tutto il suo bagaglio di credenze, di proverbi, di saggezze dialettali) e il Sudamerica, specie quello della pampa e delle praterie battute dai venti.

Dietro questa fedeltà ci sono in primo luogo motivi personali: il nonno parte per l'Argentina, con i fascisti alle calcagna, lasciando in patria una moglie e una figlioletta. Senza mai più tornare a casa. Facendo anzi sparire le proprie tracce e mettendo su una nuova famiglia. Questo vengono a scoprire la figlia, diventata madre, e la nipote Laura, salpate negli anni Sessanta, non certo per avventura ma alla ricerca angosciante dell'uomo desaparecido.

Ecco materia sufficiente per altri viaggi nel Sudamerica, specie in Argentina, e soprattutto per arrovellarsi, narrando, intorno a una storia che presto diventa, fra curiosità e ritrosie, tra voglia di sapere e rimozioni, mille storie. Storie di emigranti, di mondi vicini e lontani. Non tanto distanti però da non poter assomigliare a volte a quelli vicini.

Stavolta, intorno al piatto dell'angelo, si intrecciano tre narrazioni: quella appunto di antichi emigranti che attraversano l'Oceano, tra mille sacrifici e altrettante (dis)avventure; quella, moderna, delle donne che, facendo il viaggio inverso, e abbandonando a casa mariti e figli, spesso per anni, a volte per sempre, lavorano in Italia, fra lacrime e risentimenti; e quello da ultimo di una coppia di milanesi un poco viziati un poco incartapecoriti che, lasciando l'asfalto della città per andare a visitare la famiglia della badante, tra il fango e le rovine di antiche civiltà precolombiane, scoprono un mondo misero, a volte squallido, comunque inquietante.

Le storie narrate sono piene di «gesti antichi» e di incontri-scontri tra due civiltà assai diverse (non fosse poi che non troppo dissimili sono le storie di chi un tempo partiva e di chi oggi arriva). La morale che se ne trae, e che il refrain che accompagna il libro ripete, è una sola: «Ieri è oggi». Insomma ciò che è successo e che spesso nutre la storia migrante dell'Europa, tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, si sta ripetendo alla rovescia. Così come mai si esaurisce la «ricerca» di qualcuno e di qualcosa, ricerca da intendere come sottrazione a un furto subito: le storie familiari e collettive, il sangue parentale, i geni caratteriali.

Varcata la soglia dei sessanta, Laura Pariani combatte con la scrittura un sentimento che assale tutti i non più giovani: la solitudine, il disorientamento, a volte la disperazione. Lo fa con la consueta agilità narrativa di chi ha cominciato narrando le fiabe ai bambini e con la lingua di chi scava in un passato fatto di due mondi: quello italiano e quello sudamericano. Stavolta la partita si gioca però anche con la madre. Perché un nuovo piatto dell'angelo attende sulla tavola della casa di Orta. Non in attesa di un ritorno, impossibile oramai. Ma almeno una parola, non impossibile, che arrivi dal mondo dei ricordi. O da quello dei morti.

↑ TOP

Il piatto dell'angelo, Firenze, Giunti, maggio 2013