recensioni di La perfezione degli elastici
(e del cinema)

Il sole 24 ore, 16 novembre 1997

Scrittrici di qualità

Perfetto come un elastico

di Ermanno Paccagnini

Non so come operino le scuole di scrittura. Se però è nel concreto che mostrano la differenza che intercorre tra "scrivere" ed essere scrittore"; i libri di Riotta o Serra e per l’altro verso, della Pariani, faranno proprio al caso loro. Basta infatti qualche riga per sentire il respiro, l’istinto, la disposizione naturale al raccontare, e per capire che la Pariani "è" scrittrice.

Col di più che in quest’ultima opera, con cui torna all’universo del racconto, a un tempo libero e cadenzato entro la struttura della suite, si assiste a un ulteriore processo di maturazione. A cadenzare o filtrare il passo nei tre tempi del libro vi è l’universo filmico, con figure, personaggi, attori, scene. Assunti ora come Trasposizioni, ossia l’insondabile miscela di reale e fantastico, per cui il Mostro di Karloff, il Quasimodo di Chaney e così via si specchiano ma anche incarnano figure della quotidianità povera e marginale del mondo di ieri e di oggi d’un lembo di terra povera nella valle del Ticino. Ora come Ombre: e sono Louise Brooks, Dean o Keaton a entrare fantasmaticamente nell’universo psicologico del personaggio del racconto e dello stesso scrittore (narratore-personaggio in un gioco di specchi e rimandi), teso anche a interrogarsi su di sé e la difficoltà del suo e dello scrivere: sulla scrittura come "scorticamento di sé", insieme dolore e amore. Ora come Nostalgia: e le identificazioni–sogno dicono della via di rifugio del ricordo (ma con quanto tiene della tristezza), come pure della perfezione del dolore.

Un libro duro, e per nulla di celluloide. Che vive in forza d’una scrittura che senza mimetismi sa farsi anche visivamente cinematografica (scene, interni, atmosfere del racconto con James Dean). Quindi. d’una elaborazione strutturale che di norma si dispone per più piani, ora diacronici, ora invece per punti di vista assai mobili, con personaggi specchiantisi l’uno nell’altro: o che recupera il Leit-motiv della ballatetta cavalcantiana (Ballata dei sognatore); sino alla "compattezza frammentata" di L’amore vuoto, costruito su appunti di racconto, tra aforismi, battute, citazioni, interrogazioni, riflessioni, fotogrammi accumulatisi per via associativa e offerti come tali a un racconto di notevole e duro scorticamento. E poi la lingua: che, specie nella prima sezione, recupera il "milanese forestee" e povero della vallata del Ticino, mentre altrove si screzia in un unicum dal sapiente equilibrio con lo spagnolo e un Dante diffuso a piene mani tra citazioni e calchi diretti o meno, insieme a varie altre provenienze, non escluse le bibliche. Ed è il Dante infernale: il più appropriato a entrare in questa atmosfera da "sopravvissuti" che si dipana ovunque, e non solo in Que viene el coco, ambientato una Milano da post-distruzione da cometa. È un senso di desolazione e vuoto, di incompletezza e solitudine senza scampo, d'un dolore mai concluso e fughe "ciascuno per proprio conto", che questi racconti "inventati e assurdamente reali" comunicano. E in un mondo "ottuso di nebbia" guardato dalla carcassa d'un auto. Un senso di morte, ma pure di amore, legati nel comune sentimento della tristezza. Cui la scrittura, sia fuga o atto d’amore, reagisce: «Cercando - sognando? - la parola necessaria», con la «speranza di trovarla, in quei momenti misteriosi in cui le frasi cominciano a vivi in dul cò».

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l'Avvenire, 15 novembre 1997

Nove racconti sospesi tra film e vita

Laura Pariani invita al Nuovo Cinema Memoria

di Fulvio Panzeri

Una conferma viene dal nuovo libro di racconti di Laura Pariari, una delle «sorprese» della narrativa di questi anni: tre libri di racconti all'attivo, tutti pubblicati da Sellerio, di cui uno Il pettine, contiene prove narrative da antologia. Ora Rizzoli pubblica La perfezione degli elastici (e del cinema), che è un libro perfetto, in cui la Pariani riassume e unifica proprio attraverso l'identificazione tematica (il cinema) le soglie della sua espressività narrativa, dando ad esse una coesione tematica che rende ancor più emozionato questo continuo «viaggio» dal presente al tempo della memoria che è la cifra del suo fare letterario.

Tanto evidente da risultare, anche in alcuni racconti di questa raccolta una sorta di ossessione. Nel testo dedicato a Buster Keaton, in una straziata traversata di una Milano post-atomica, metafora dell’approssimarsi alla morte, quando finalmente "chi riposa in questa notte cupa comprende i destini", il monologo s'avvia così "Ogni uomo si sente infelice quando perde la luce del ricordo". E quando la recupera e s’impossessa del tempo irrecuperabile del «c’era una volta», ecco proprio allora, in compagnia dl Ollio e Stanlio, si giunge a quell’intoccabile «perfezione degli elastici», inseguita per l’intero libro.

Nove racconti, suddivisi in tre blocchi o scenari che designano anche un tempo o un riferimento narrativo. In "Trasposizioni" i racconti riprendono situazioni e personaggi dei film e li corrodono in quel tempo arcaico della profonda Lombardia, tanto cara alla Pariani. Ne nascono storie terribili, misteriose e incantate, improntate da quel segno della lunaticità e della "strologheria" che Cardarelii indicava a tratto distintivo dell’essere lombardo. Nel secondo tempo, nominato "Ombre", la Pariani rivive alcuni miti cinematografici un James Dean che si schianta col suo bolide, sull’autostrada 41, visto attraverso le premonizioni di una ragazza quindicenne; visitando il fascino di Luise Brooks invece urta quarantenne cerca di capire come è possibile affrontare il tema della solitudine e dell’amore; il terzo invece racconta «il gelo» di una Milano che non risponde più, vista attraverso "l’occhio atomico" di Buster Keaton.

Terzo tempo, per le "nostalgie", in cui scorrono sogni in bianco e nero, frammenti di pellicole, inseguendo un Tarzan da sogno e Johnny Weissmuiler dopo uno dei suoi urli si riveste di luce non compresa e dove la voce «sbigottita e deboletta» vien rimandata ai tempi di quell’"età dell’oro" che è l’infanzia.

Sorprende poi la gran capacità della Pariani di mimesi all’interno dei testi, le fughe delle voci, il gioco del frammento: ricordi che vanno e vengono, voci narranti che mutano fino a imporre una sapienza narrativa che si riflette in una naturalità estrema e familiare nel dare, ancora, un senso corporale al sentimenti: questa è la meraviglia della scrittura, come l’intende la Pariani. «Succede come nei film, quando all’improvviso capita che un’immagine ci salti agli occhie bruci»: qui di immagini ce ne sono molte che si aprono, al di là del contesto, verso la definizione di una verità-perfezione: «le grandiose scurità», il compito della natura, la «topografia del grigiore», la libertà sconfinata dei morti.

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Tuttolibri - La Stampa, 30 ottobre 1997

Laura Pariani: Caro cinema perfetto e tragico come il destino

di Bruno Quaranta

Dov'è la perfezione dell’elastico? E’ in un gioco antico, forse evaporato che Laura Pariani ricorda cosi: «Si sta con le mani una di fronte all’altra e un elastico infilato tra le dita; poi, con piccoli e svelti movimenti, lo si intreccia in forme sempre più complesse, arrivando a formare una fitta rete, finché, con un solo piccolo rivolgimento del medio o dell’indice, tutta si disfa di colpo». Dov'è la perfezione del cinema? «E’ nel dna di quest’arte, che detta, forse più di altre, tempi, ingressi, uscite, scambi, che impone di sbalzare una storia...». Il gioco povero, insegnato dalla nonna, e il gioco inventato dai fratelli Lumière, echi inossidabili di un'età remotissima, finemente, cocciutamente, dolcemente riannodata, sino alla confessione estrema: «Come tutti i bambini nel tempo irrecuperabile del "c’era una volta" non cercavo spiegazioni ma credevo nell'intoccabile perfezione degli elastici e del cinema. La perfezione degli elastici (e del cinema) è la nuova scommessa di Laura Pariani, per i tipi di Rizzoli. Dopo un felice cabotaggio – la felicità di catturare la critica – nel catalogo Sellerio, in cima i racconti d’esordio: Di corno o d’oro. Quarantacinque anni, docente in un istituto tecnico, una vita ordinaria a Turbigo, davanti al Naviglio, una vita extra, il sabato e la domenica e tutti i giorni autorizzati dal calendario scolastico in queste stanze fané, sopra piazzetta Ernesto Ragazzoni, il bizzarro genio locale: «Ad Orta, in una camera quieta/dove, a tratti, il vento come un fiato/ porta un fruscio sottil, come di seta...».

Fedelissima al numero nove, Laura Pariani. Tanti erano i sogni Di corno o d’oro, tanti i film «centrifugati» nelle pagine fresche di stampa. da "Frankenstein" a "L’uomo scimmia", da "Lanterne rosse" a "Il vaso di Pandora", ciascuno una dedica: a Boris Karloff, a Johnny Weissmuller, a Gong Li, a Louise Brooks.

Non il cinema che riflette la vita, ma la vita che riflette il cinema, il cinema che lascia lo schermo e scende fra gli spettatori, in sala e fuori, nelle piazze, nei vicoli, nei campi. Almeno nei primi quattro atti è l'aura rustica, padana, ottocentesca gustata nelle prove iniziali ad essere restaurata. Un'atmosfera modellata nel (e dal) dialetto, dalla giostre di umori, di colori, di vampate ironiche e autoironiche e feroci che è. «Come nelle "Belle vittime", ovvero, ricordando Frankenstein, il Mostro e la Bambina, il Mostro che è costretto a uccidere perché la gente non vuol saperne di Offrirgli un ruolo diverso, incarna il Cattivo e il Cattivo è una figura indistruttibile. Mi è sembrato naturale farlo parlare in vernacolo, una lingua tragica, forse perché morta».

E così il Biàs, lo scemo del paese, il riflesso di Quasimodo avvinghiato a una sola sillaba, fàm, che ogni bisogno riassume, sibila, interpreta nella sua radicalità.

Favole che gravitano intorno al cinema, non sceneggiatura (genere, peraltro, in cui Laura Pariani ha cominciato a cimentarsi: ha firmato il copione di Come ridevano, prossimo film di Gianni Amelio, Anni Cinquanta, due fratelli emigrano in una città che potrebbe essere Torino, il minore dovrebbe dedicarsi agli studi, il maggiore rasenterà la malavita).

«Favole perfette» come le comiche di Stanlio e Olio: «Da piccola non riuscivo mai a seguirle per intero, avvicinandosi il disastro che inevitabilmente le suggella mi allontanavo, correvo via stremata».

Inevitabilmente: qui la magnificenza del cinema, secondo Laura Pariani. Agli attori tocca destino di testimoniare che «il destino è inesorabile».

Così il magrolino e il ciccione (Li paragonerò ai personaggi delle favole antiche, terribili e affascinanti per il loro meccanismo perfetto). Così Buster Keaton, l’ombra magistrale che si allunga sui set letterario, pedinata in una Milano «dopo la cometa», gemella della Torino cremoniana, montagne di detriti, il genere umano cancellato, i tram vuoti, i marciapiedi nebbiosi imperante l’attesa del Giudizio Universale, del Grande Diretùr per la festa finale della Mietitura.

E' Buster Keaton lo specchio. il ritratto di Laura Pariani: «Forse non era Buster. Forse era uno scrittore. Mi parve di riconoscerne i segni: sono propri, infatti, di coloro che scrivono l’incertezza, lo sguardo perso nel vuoto, cercando – sognando? – la parola necessaria, immersi nella speranza di trovarla...».

Perché se il sonno genera mostri, il sogno li umilia, li incenerisce.

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L’Indice, febbraio 1998

Gruppi

Lidia De Federicis

Laura Pariani attinge alla memoria filmica nei racconti di La perfezione degli elastici (e del cinema). Aggiungo cinque titoli in ordine di stampa di stampa. È di un anno fa, gennaio 1997, Lazzaro o le tribolazioni di un risorto di Giovanni Mariotti; seguono, in agosto, Musica distante di Emanuele Trevi e Otranto di Roberto Cotroneo; in ottobre, Annunciazione di Laura Bosio; in novembre, Decalogo (racconti di Picca, Anedda, Ferri, Carbone, Doninelli, Susani, De Santis, Pera, Pariani, De Luca) a cura di Arnaldo Colasanti.

Sono libri che tutti s’ispirano alla (appunto) elasticità: a un’idea di letteratura morbida e adattabile. Qui avvengono ibridazioni di forme simboliche, fra letteratura e cinema, pittura, musica, e fra la narrazione moderna e i nuclei germinanti degli archetipi narrativi. Mariotti risale a certe pitture medievali, per inventarsi la vita puzzolente del povero Lazzaro oltre la conclusione della parabola, Trevi adotta la scansione delle sette virtù, cardinali e teologali, e dentro vi colloca andirivieni su libri e quadri, per finire con la distant music posta da Joyce a chiusura del celebre racconto su I morti; Cotroneo divaga attorno alle visioni suscitate dal mosaico nella cattedrale di Otranto, bel nome rotondo che evoca crudeltà e turcherie; la Bosio parla di sé e della Madonna, ripercorrendo l’iconologia della vergine visitata e spaventata dall’angelo; infine undici scrittori (dieci antologizzati più Colasanti) s’appoggiano ai comandamenti biblici, per trame slancio e raccontare il mondo d’oggi. Questi libri hanno in comune che sono culti e densi e fondati su un percorso di ricerca dell’autore. Ma, all’interno del gruppetto dei sei, il gioco delle ripartizioni può essere svariato. Eccone qualche esempio.

Possiamo riaggregarli in base agli aspetti formali, secondo il risalto che è dato alla componente narrativa (nei racconti di Pariani e del Decalogo) o al suo sfinimento (nel romanzo bloccato di Cotroneo) o alla frammentazione (nel fumetto senza figure di Mariotti) fino alla prevalenza del saggismo (in Trevi e in Bosio). O secondo il livello dell’elaborazione stilistica, di grado zero (Bosio) o di massimo impegno ma con diverse scelte che vanno dal mistilinguisino (Pariani) alla rarefazione (Trevi, Cotroneo, Colasanti,). E c’è chi lavora principalmente sulla sintassi complessiva del libro (Mariotti), e chi sulla frase e sul lessico (Pariani). Se poi si considera il punto di vista, risulta evidente la differenza di genere grazie all’interesse specifico delle donne che scrivono, mirato sulla sessualità femminile. Se si considera il messaggio al destinatario, spicca invece la constatazione che i più, ma non tutti, sono espliciti nel collegarsi alle sacre scritture. Se si guarda infine ai temi e alle schegge di poetica qua e la disperse, appare discriminante – pur nella tendenza a destabilizzare ogni storicismo progressivo – la posizione di chi scrive, con l’intento o di innalzare la realtà dissolvendola nel sacro o al contrario di abbassare realisticamente la sacrale figurazione. Chiarissimo è Mariotti, quando afferma di aver voluto un "piccolo libro plebeo" modellato sul nichilismo delle campagne. Non intercambiabile con Cotroneo, il quale lascia capire di aver cercato di "immergersi nel mare profondo dei pensieri divini".

Mai fidarsi, dunque, delle classificazioni univoche e delle diagnosi generali su indizi mobili!

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L’Indice, febbraio 1998

Tarzan e Ollio sul Ticino

La perfezione degli elastici (e del cinema), Rizzoli, Milano 1997.

di Rossella Bo

Di questo libro, che segna il ritorno di Laura Pariani alla dimensione narrativa a lei congeniale del racconto, diciamo fin da subito che il parallelo suggerito da un titolo alquanto stravagante (e accattivante) può essere ritenuto ammissibile: senza aspettare l’ultima pagina, il lettore consideri dunque cinema ed elastici come entità analoghe e analogamente perfette, nonostante le apparenze che le vorrebbero assegnate a insiemi destinati a non intersecarsi fra loro. Per amor di precisione, occorre notare che è soprattutto il movimento dell’elastico quello che interessa, è la sua estensibilità e quindi la capacità che esso possiede di mutare forma, dilatarsi e restringersi (seppure non all’infinito) a renderlo metafora ideale di un possibile, continuo scorrimento tra il piano della realtà e quello della finzione, intesa qui come racconto fatto di parole e/o di immagini.

Così in questi testi il percorso narrativo, invero piuttosto originale, che ha il suo primum nella "vita orrida vera", si suppone traslato immediatamente in ambito cinematografico, per approdare solo in un secondo tempo all’elaborazione letteraria (e non viceversa, come accade solitamente, secondo la direttrice che dalla letteratura conduce ai film). Su questo duplice piano di fiction si srotolano nove intensi racconti, opportunamente raggruppati in sezioni i cui titoli rimandano, sottolineandole, alle differenti modalità che ne hanno presieduto la dinamica compositiva: ecco allora Trasposizioni, Ombre e Nostalgie.

Nella prima parte, che contiene i testi che dal mondo del cinema traggono più direttamente ispirazione, l’autrice muove con disinvoltura le sue trame — preferibilmente di carattere noir — a partire da un pretesto filmico, dal Frankenstein con Boris Karloff a Fanny e Alexander di Bergman; in Ombre invece il racconto trae la sua sostanza vitale dalla biografia di un attore (meglio se tragica come quella di James Dean), e persino dalla riflessione generata dal ricorrere nella memoria dei suoi tratti somatici più salienti (soprattutto gli occhi: seducenti quelli di Louise Brooks, inquietanti e magnetici quelli di Buster Keaton, in Que viene el coco, un testo fittissimo — troppo — di richiami culturali, teso com’è a fondere arte, libri, cinema, tutto).

Chiudono il volume due Nostalgie che, rievocando ciascuna un protagonista che più diverso non si può della nostra cultura cinematografica (riuscite a immaginare qualcosa di più dissonante di una coppia composta dall’atletico e bellissimo Tarzan-Johnny Weissmuller e del rotondo e sconclusionato Ollio-Oliver Hardy?), hanno in comune il compito di evidenziare senza possibilità di equivoci la natura dello sguardo che si cela dietro la composizione dell’intero volume, che è quello magico, onnipotente e delirante dell’infanzia, il solo capace di riprodurre il mondo del "c’era una volta" in cui non si cercano spiegazioni ma si crede ciecamente nelle cose, e soprattutto nel fatto che "si puote ciò che si vuole" se davvero lo si vuole fino in fondo. L’adolescenza, l’età adulta e anche il dolore di cui comunque l’infanzia è imbevuta, sono lì dietro la porta a ricordare che così non è e non sarà mai: ma questa è ancora un’altra storia.

Particolare e pregevole, nella Perfezione degli elastici, è senz’altro il piano linguistico, concepito come un sovrapporsi e inseguirsi continuo dell’italiano e del dialetto lombardo della valle del Ticino, trattato dalla Pariani come una lingua vivissima, legata anch’essa al mondo dell’infanzia e capace di guizzi indimenticabili (il protagonista della Ballata del sognatore che dice di sé: "Ero un catasògn..." l’apparentemente monotono ripetere "fâm" di Biâs–Quasimodo, in Tette di liquirizia), il cui uso è giustificato, a livello contenutistico, dalle ambientazioni quasi sempre evidentemente padane dei racconti; a incrementare il plurilinguismo del testo si aggiunge poi un altro ingrediente, lo spagnolo, peraltro già ricorrente nella penultima prova dell’autrice, il romanzo La spada e la luna (Sellerio, 1995). Ispirato a criteri altrettanto polifonici, ma non sempre così riuscito, è l’intreccio dei punti di vista e dei livelli temporali della narrazione, il cui alternarsi e confondersi genera a volte un eccessivo affaticamento del racconto, come potrebbe accadere se il narratore onnisciente di manzoniana memoria perdesse la sua ironia diventando voce ovvia nel testo (è il caso soprattutto di L’amore Vuoto e del già citato Que viene el coco).

Alla fine della lettura si ha l’impressione che la Pariani sia più autentica narratrice là dove non ritiene di dover giustificare la propria capacità immaginativa ricorrendo a ingombranti auctoritates: emergono allora le pagine di Le belle vittime, Tette di liquirizia, Nella settima anima, Ballata del sognatore e Questionario dei giorni perfetti, meno ammiccanti nei confronti del passato, più libere di raccontare, con parole e immagini, i sogni e il futuro.

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Laura Pariani, La perfezione degli elastici (e del cinema), Milano, Rizzoli, 1997

di Monica Corrias

Va innanzitutto detto che La perfezione degli elastici è un libro di racconti articolato in tre sezioni: "Trasposizioni" (che definirei esplicitante dell’atto creativo a partire dal personaggio cinematografico. "Ombre" (o il metaracconto, che ci introduce, senza mai perdere la capacità creativa, nell’officina alchemica della scrittrice), e "Nostalgie" (o la necessità del ricordo come atto di recupero della semplicità infantile e della possibilità di provare ancora stupore nonostante l’ansia per una vita che da subito si delinea dolorosa e incomprensibile).

Va poi detto che questo libro io l’ho letto come un tarlo che mi rodeva nella testa e mi spingeva a continuare il testo per scoprire il senso del titolo. Bisogna dire che l’ho talmente cercato, questo titolo, che più di una volta mi sono ritrovata a fare ipotesi, anche se la mia speranza rimaneva quella di trovare una dichiarazione forte da parte della scrittrice stessa. Ero sicura che il titolo dovesse essere rivelatore, ma quando finalmente la Pariani ha deciso di svelarne il senso, nelle ultime due pagine, mi sono sentita redarguita. Il titolo infatti, fa riferimento alla capacità infantile di potersi ancora stupire di fronte alle situazioni inaspettate, o anche attese, ma temute, della vita. Invece, durante la mia lettura è stato come se a metà percorso io avessi imboccato, con troppa foga, solo una delle strade proposte a chi legge. Ho cercato di puntellare le mie domande e le mie impressioni, quasi perdendo quella capacità di una lettura più ardente alle cose – che ci garantisce la possibilità di stupirci – e quindi godendo meno delle circonvoluzioni che l’elastico—libro mi proponeva. Questa mia lettura però, è stata certamente indotta dalla sezione centrale del libro, dove forte si mostra la valenza metanarrativa. Quindi, forse, questo perdersi è stato funzionale alla conclusione del libro che, in questo modo, restituendo in coda il punto di vista dell’autrice, non si è concluso, ma ha chiesto di essere nuovamente attraversato. Una rilettura però, che questa volta non neghi la disponibilità alla stupefazione e al farsi disorientare dai diversi punti di vista, che sempre vengono rinfranti e deformati attraverso l’uso straniante del proprio immaginario, ma soprattutto attraverso l’uso inaspettato del dialetto lombardo e la possibilità di modificare il senso del tempo – tema che si manifesta in tutta la sua potenza e complessità proprio nel rapporto fra letteratura e cinema, dove la scrittura trova il proprio doppio nello spazio filmico.

Il libro; che da subito si mostra essere all’insegna del recupero delle radici linguistiche e culturali dell’autrice (come ho già detto spesso utilizzate al fine di determinare un disorientamento in chi legge, e quindi un nuovo punto di vista), si articola dunque in tre movimenti, ciascuno suddiviso in differenti tempi narrativi, per un totale di nove racconti che prendono diversamente spunto dall’ambito cinematografico. La difficoltà del libro viene forse dal fatto di essere denso di citazioni, all’insegna del tema malinconico: è infatti un libro di perdite, di violenze subite e agite, di amore e di mancanza d’amore e semplicità, in un continuo alternarsi dell’lo narrante che si moltiplica nel testo in un gioco di specchi, dove anche l’io che scrive diviene dichiaratamente personaggio e dialoga sia con il lettore, sia con gli altri personaggi narrativi e cinmatografici la scrittura è una scrittura densissima non solo di citazioni cinematografiche, artistiche e letterarie, ma anche di richiami interni non sempre immediatamente individuabili. Il libro; inoltre usa una serie di specchi di differenti dimensioni che «riflettono la sua immagine, moltiplicandola e ricomponendola». La narrazione prosegue in un continuo frantumare e ricomporre l’immagine attraverso gli «occhi malinconici» e tristi del personaggio cinematografico che riflettono quello narrativo, in un gioco che mai esclude l’io narrante. il libro — ripeto — non nasconde la propria appartenenza allo stato melanconico, tanto da citare apertamente non solo lo stato accidioso e atrabiliare, ma da utilizzare lo specchio per affilare e fare la punta al pensiero. L’insistente riflessione sulla ferita che causa la necessità della scrittura, si mostra ala lettore dal di dentro, punto privilegiato dal quale osservare lo svolgersi doloroso della scrittura. Questa si articola lungo un percorso che attraverso La memoria recupera lo sguardo iniziale per giungere, infine, a nominare le cose: un atto di comprensione e di amore che si oppone al silenzio: "Strane cose succedono nella memoria." (…)

Il percorso del fiore dalla sua scoperta fino a questo nome che si stampa sul bianco della pagina è il dolore della scrittura" (p.100) e ancora «Tutto lo scrivere è un atto d’amore, perché ogni forma di comunicazione è testimonianza della voglia di comprendere» (p. 106).

Il risultato è un libro funanbolico che riconosce la creazione letteraria come atto d’amore e processo di identificazione delle cose a partire da un percorso che segue necessariamente la memoria, spesso sospendendo o anche sovvertendone i tempi reali e immaginari. Testo "elastico" che raccoglie emozioni, pensieri, desideri, immagini e linguaggio apparentemente perduti, ma che, attraverso l’improvviso e cercato, balenare di un ricordo, o la riarticolazione della medesima fantasia diventa ingenuo o fintamente tale. Così la Pariani ritorna alle radici, al periodo infantile ed adolescenziale, ai divieti che lì furono imposti e alla scoperta di un mondo adulto che non rispetta la promessa di verità e felicità ricevuta alla nascita. È da questo luogo, che l’autrice rilegge le figure del mostro—deforme—diverso-escluso come portatrici di valori positivi, come se questo stato intermedio e complicato fra reale e immaginario li rendesse ancora partecipi della positività. Poi, dopo averci accompagnati nella sua officina e aver nominato il male della cultura occidentale — la troppa distanza dal tempo mitico e la frattura fra il fluire del tempo e il pulsare del cuore (cfr.p.123) - reagisce alla perdita appena dichiarata, nuovamente attraverso il disorientamento del lettore, che ottiene usando il recupero del proprio immaginario lombardo e del cinema, di cui ci troviamo, a non conoscere i suoni o a condividere immagini, riconoscendolo però, comunque, come parte di quello collettivo. E così, in conclusione di libro, accompagnandoci affettuosamente per mano – dopo un percorso che torna su se stesso – ci spiega, parola per parola, il titolo del suo libro che è già divenuto anche nostro.

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Corriere della Sera, 3 dicembre 1997

Storie intime e memorie sognando il cinema e Lulù

Pier Vincenzo Mengaldo

Laura Pariani s’era già affermata vittoriosamente (sebbene, è da temere non presso i lettori proni alle classifiche di vendita) con tre libri consecutivi editi da Sellerio, a partire dall’ottimo Di corno o d’oro del ’93. Ne La perfezione degli elastici (e del cinema), pubblicato ora da Rizzoli, l’autrice rinnova piuttosto a fondo la propria materia (ferma restando soprattutto la propensione per le sottili tonalità rievocative) e intensifica invece quella che possiamo chiamare la ricetta più personale della sua scrittura.

Questa ricetta consiste in due parole, nell’uso abbondante di inserti dialettali lombardi non solo a guisa di citazioni, per esempio di brani di canzoni, oppure nel dialogato, ma anche nel narrato stesso, con diffusi effetti mistilingui. e questa tecnica, al di là di quel che può avere di evocativo, mi pare innanzitutto un modo. per diminuire la distanza fra colei che narra e i suoi oggetti Sarebbe poi troppo lungo mostrare, ma è un ‘ evidenza, come quello della Pariani si distanzia da altri modi di utilizzare il lombardo che hanno avuto corso nella ,narrativa del '900, tra Gadda, Testori, Arbasino e altri. E va ricordato che il mistilinguismo è comunque al di là degli inserti dialettali una vocazione della Pariani, così come è onnipresente il gusto della citazione sicché non troviamo soltanto appropriazioni dello spagnolo, in pagine ambientate in Spagna, ma ad un certo punto per esempio, un melange di Villon (in originale), Dante, brani spagnoli e lombardi.

Il fatto è che nella Pariani, è attivo e profondo il senso dell’esperienza culturale come esperienza vitale che si rinnova nella memoria, e questo senso ora funziona da pedale atmosferico ora, e, spesso e produttivamente, da tema o motivo veri e propri. In questo nuovo libro la cosa appare con tutta evidenza: il suo, originale, tema è fornito, per intero, dalle rimeditazioni e dai depositi di esperienze cinematografiche, messi, a frutto in tre modi, secondo la distinzione stessa dell’autrice: Trasposizioni, cioè vicende di film o icone d’attori non già «trasportate» ma ricreate completamente in tutt’altro e magari «dialettale» ambiente; Ombre, cioè fantasmi mitici di attori che agiscono come sfondo e insieme elemento perturbante di una storia; e Nostalgie, cioè figure di attori pur essi mitici immersi nella atmosfera dei cinemini anni Cinquanta (così riassume la bandella).

Di questo contrasto e di questa sovrapposizione (magari malata) di mito e realtà, lontananza e vicinanza, memoria e presente, eccetera, la Pariani esplora con grande sensibilità e ricchezza i molti effetti possibili; e mentre il mito e il ricordo planano sulla realtà attuale avvolgendola e sfumandone i contorni, la realtà a sua volta continuamente si trasfigura, e si mistifica, nel cinema: volta per volta, il lettore non sa esattamente dov'è, e qual è il suo quando.

La Pariani è scrittrice di vero rango, e perciò la sua forza e la sua abilità si sento­no ovunque. Credo però che, a questo punto, debba guardarsi un po’ da due pericoli: quello, che affiora qua e là, che i suoi interessantissimi meccanismi linguistici diventino, per troppo uso, una maniera; e quello che la rappresentazione ambientale scada da rievocazione fantasmatica a mimesi. A me sembra, salvo errore, che questo sia il caso di Nottambuli, dedicato a James Dean e insieme al grande pittore Edward Hopper, dove però l’interessante suggestione figurativa finisce, quasi inevitabilmente, per passare attraverso quella di tanta narrativa americana del nostro secolo, e dunque ne risulta una atmosfera troppo proverbialmente "Americana".

Viceversa non sarà un caso che il capolavoro del libro, e a mia conoscenza uno dei migliori racconti italiani recenti (sebbene, s’intende, integrato qui in un’opera coerente da cui riceve luce e senso, a sua. volta dandogliene), sia il più disteso del libro, L’amore vuoto, che ha come sottofondo o referente psichico la splendida, enigmatica Louise Brooks (la Lulù di Pabst).

In queste pagine sono scansati del tutto entrambi i difetti o pericoli che ho creduto di segnalare: il gusto della citazione agisce in modo sottile e funzionale, fermentando tutto all’interno della dolente protagonista, e l’autrice affonda ancora una volta in quel mondo di intimità, memorialità e frustrazione declinate al femminile in cui si muove a suo perfetto agio. Ne risulta, in breve, un bellissimo ritratto di donna, nello, stesso tempo condizionato dalla sua storia e trascendente rispetto ad essa, quasi "sospeso". Sarei davvero molto lieto se, approdando a una casa editrice più nota e munita della pur prestigiosa per la quale finora ha scritto, la Pariani potesse allargare, per suo merito é con loro soddisfazione, la cerchia dei propri lettori.

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Tuttolibri - La Stampa, 16 ottobre 1997

Luci della ribalta per la Pariani

Mirella Appiotti

Ha scritto il film che Gianni Amelio sta per presentare, il titolo per ora è Come ridevano, gli anni 50 italiani: «Una bellissima esperienza fare (così come vedere) un film e una grande fatica, la scrittura rende molto selvaggi, il cinema obbliga a rapporti, alla coralità». Insieme un piccolo trauma e, forse, un balsamo per Laura Pariani che al proprio innamoramento per le immagini dello schermo, il mistero che sfugge alla ragione, ha dedicato anche il nuovo libro con il quale passa alla «scuderia» Rizzoli che lo pubblica tra pochi giorni. La perfezione degli elastici (e del cinema) tra "Trasposizioni, ombre, nostalgie" fa dei nove capitoli ciascuno dedicato «non a un regista ma a un attore perché è l’attore, quell’attore; come quel libro che stai scrivendo, a popolare la tua vita» quasi una autobiografia a molte voci, dove i funambolismi lombardo–latino americani della lingua lasciano spazio soprattutto al silenzio...: il silenzio degli eroi del muto, Buster Keaton «dall’occhio atomico», il silenzio entro al quale affonda il dolore della Louise Brooks del Vaso di Pandora, di Lanterne rosse, il chiacchericcio inesistente e tragico di Stanlio ed Ollio. Mentre l’unico silenzio-non silenzio, è forse quel gioco degli elastici che la nonna fa per addormentare il bambino. Poiché «è l’amore che insegna a parlare».

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Diario della settimana, 14-20 gennaio 1998

Questionario dei giorni perfetti

Piccola epopea cinematografica di un bambino grasso e altri divi, in forma di racconti

di Massimo Onofri

C‘è stata una generazione di poeti e scrittori che ha amato il cinema incondizionata-mente, come dentro una specie di eden d’emozioni scintillanti, non ancora complicate dalle malizie della cultura. Quella genera­zione che ha avuto il suo salvacondotto per evadere oltre i confini di un’Italia autarchica e fascistissima proprio da certo cinema americano prima ancora che dalle traduzioni di Pavese e Vittorini. Penso ad un Bertolucci adolescente che, insieme a Pietrino Bianchi, conduceva il suo supplente di lettere, un riluttante Cesare Zavattini, alla prima della Febbre dell’oro: ne sarebbe venuto fuori un capitolo non minimo della storia del cinema italiano. Penso a Bufalino, segregato nella sala di una remota periferia: la stupita scoperta di Louis Jouvet e delLa Dietrich. E la compilazione di un elenco dei film visti, dal 1934 al 1955, con tanto di cast e regista, persino di voto da una certa data in poi: ne trovo notizia in un delizioso Libro stampato dalla Salarchi Immagini di Comiso, ove si legge quel che Bufalino ha scritto di cinema e molto altro. Penso a Sciascia, che negli stessi anni coltivava stesse abitudini, quello degli ultimi mesi che si commosse per Nuovo Cinema Paradiso.

La Pariani di questi nove racconti viene dopo tutto ciò: e non solo per motivi anagrafici. Si badi: non che manchi qui una dichiarazione d’amore. Basterebbe leggere, nella sezione Nostalgie, l’intenso Questionario dei giorni perfetti dedicato a Oliver Hardy (quello in cui si trova incantata spiegazione del titolo): la piccola epopea cinematografica di un bambino grasso e infelice. La Pariani, per dirla tutta, del cinema ha fatto originale sintassi narrativa. Prendete lo struggente Tette di liquirizia, dedicato al Lan Chaney di Notre-Dame de Paris, secondo della sezione Trasposizioni. Si parla di Dosolina e Quasimodo, il gobbo: «La dobbiamo conoscere attraverso lo sguar­do confuso dello scemo, in campo lungo, in quel palcoscenico squallido che è un sentiero di brughiera». Campo lungo, primo piano, dissolvenza, slittamento e moltiplicazione del punto di vista: La Pariani è brava nel provare tutte queste tecniche, senza che il lettore abbia mai ad infastidirsi di certi schematismi che condannano troppo spesso Le prose programmaticamente sperimentali. Ed è brava soprattutto in queste Trasposizioni, ove, come recita un risvolto puntuale, si tenta un’operazione inversa a quella consueta che dal racconto passa al film: ecco, allora, gli omaggi davvero belli al Boris Karloff di Frankenstain e al Bartil Guve di Fanny e Alexander. Ma la sezione del libro, ove le verità fantasmagoriche del cinema vanno a strutturare davvero il racconto, è di sicuro Ombre. Ve la ricordate la Louise Brooks del Vaso di Pandora? Ecco: «La bellezza mi interessa. L’infelicità mi sconvolge. Parlare di Louise Brooks vuoI dire analizzarle entrambe». Nell’Amore vuoto, un racconto di schegge saggistiche, una scrittrice in crisi vuole confrontarsi con uno scandalo d’occhi, quelli di un’attrice che è «L’immagine stessa della catastrofe»: e ne deduce una storia d’amore e disperazione, di cibi, di amicizia muliebre, di madri belle e figlie frustrate. In un libro che, quando ricorre al dialetto lombardo e ticinese (ma può anche non farlo: come nel notevole Nottambuli), non mostra mai albagia macaronica, che quando s’interroga non celebra i narcisismi della postmodernità: piuttosto la volontà di inseguire, comunque e sempre, la vita là dove la macchina da presa s’arresta. D’altra parte:

«Cos’è una vita che non sia racconto?». Ladra di vita, la Pariani emula i veri registi: ce ne resta uno straziante catalogo di gesti e volti perduti.

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L’Unità, 2 gennaio 1998

I racconti "cinefili" di Laura Pariani

di Roberta Chiti

Quando Buster Keaton parla padano, il dialetto (e il cinema) irrompono nel romanzo.

C’è un mondo in cui il cinema e la Padania si incontrano. In cui Frankenstein fa la conoscenza di un'orda di paesani inferociti, Lanterne rosse diventa una tragedia contadina, Film con Buster Keaton (la sua opera più sconvolgente, girata «a quattro mani» con Samuel Beckett) un'apocalisse metropolitana.

E’ il mondo del dialetto, non annunciato, brusco, buttato all’improvviso (e senza nessuna traduzione) in mezzo al testo. E’ anche il mondo che a Laura Pariani, 46 anni, già autrice della Spada e la luna, Di corno o d’oro, Il pettine, serve come cassa armonica e deus ex machina per i racconti del nuovo libro La perfezione degli elastici, costruiti sul filo dell’amore per il cinema inseguendo una vecchia tentazione: far vivere i personaggi dello schermo e introdurli con un giro di fantasia in una nuova anticamera del reale.

Non è il protagonista della Rosa purpurea del Cairo che scende dallo schermo, né lo Stanlio che arruola il Marlowe di Triste, solitario y final. La terza dimensione che Laura Pariani offre ai personaggi in cambio del movimento è appunto il dialetto, un motore in più, un supplemento di vita che li rende di colpo imperfetti, passibili di malattia. In definitiva umani. Ed è curioso come l’uso di un dialetto che sembra così tanto il varesotto di Bossi, in tutta la sua antica "rozzezza", appaia paradossalmente come un tocco prezioso, proprio perché artigianale.

Guardate quant’è tragico fenomeno da circo il protagonista delle Belle vittime dedicato a Frankenstein. Così come il Boris Karloff del film, anche il mostro campagnolo è incuriosito e attratto dalla bambina. Mostro e bambina sono uniti da un filo di poesia: lui è un maldestro, uno che non riesce a comunicare, che desidera senza avere mai, che si consola abbandonandosi al suo superolfatto, un senso esasperato che gli fa strasentire anche quello che non c’è. Lo seguiamo nel suo avvicinarsi alla piccola entrando e uscendo dai suoi trip, sentendo insieme a lui l’odore del caprifoglio, commuovendoci davanti al grembiulino azzurro. Il dialetto è insieme un coro e la voce del suo inconscio, un dentro e fuori agghiacciante. «Voleva lei. Perché era bella. Proprio oibella. Mentre lui era brutto. Oibrutto». Così come è coro senza pietà il dialetto che commenta le ultime ore della Fèmia, bella e dannata contadina dai capelli rossi, svergognata che ha osato concepire un figlio, fuori dal matrimonio. «Tàme ‘na pitta, sorda alle urla di minaccia e agli schiamazzi delle pòlle spaventate». Come la protagonista di Lanterne rosse, la Fèmia si trova in un gioco che è stato allestito alle sue spalle, vittima di una trama feroce e senza vie d’uscita Non c’è dialetto invece nei due racconti di Ombre (Nottambuli, dedicato a James Dean e Edward Hopper, e L’amore vuoto dedicato a Louise Brooks). Qui a regalare un’anima nuova ai personaggi c’è il continuo rimbalzo dal racconto al film all’autrice medesima, donna progressivamente svuotata man mano che procede la narrazione, di volta in volta coinvolta o infastidita alle azioni delle sue stesse creature un po’ come succedeva in Hammett. Indagine a Chinatown: lì c’era una vecchia macchina da scrivere, qui c’è il computer a fare da chiave d’ingresso per la fiaba. Nell’Amore vuoto facciamo la conoscenza di una donna afflitta dai paragoni. E’ brutta, a differenza della vecchia amica Marisa. È grassa con l’aggravante di una madre che le diceva: "Essere belle non è da tutte". E’ sfortunata cogli uomini, a differenza di Louise Brooks che adora. Anna si avvita su se stessa ogni volta che la scrittrice la guarda regalandole nuovi opprimenti risvolti, in un continuo passaggio di piani narrativi. Ed è sempre la potenza dello sguardo a giocare il ruolo principe, stavolta seguendo quasi alla lettera il principio fondamentale del film, nell’inseguimento del protagonista di Que viene el coco, che è ormai quasi un’ombra sopravvissuta a un’apocalisse metropolitana, una «Cometa» che ha devastato l’intera città. L’uomo corre dietro a una figura misteriosa, là trova, ne viene a sua volta inseguito, alla fine si riconosce in quella faccia come Buster Keaton faceva con il suo doppio nel film di Beckett.

Stavolta il dialetto diventa un gioco complicatissimo, la pedina di un enorme puzzle di citazioni, brani di poesie, messaggi e filastrocche disperse come i frammenti di "Una frase un rigo appena"; come se la scrittrice volesse moltiplicare ancora di più il punto di vista, disperdere le tracce della propria ispirazione, forse rendere il suo libro volutamente poco omogeneo, come nei contorni sfarfallanti di una pellicola che sta per bruciare.

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La Gazzetta del Sud, 17 novembre 1997

Il cinema raccontato e il mistero in rassegna

Giuseppe Amoroso

Nove racconti per parlare di cinema: Laura Pariani inventa un linguaggio ibrido, da un lato elegante e musicale, con una sonda sensibile nel pescare memorie, nel collegare destini; dall’altro, sorprendentemente desto per un fiotto di umori popolari, con voci dialettali lombarde inserite come tasselli di sapienza e di incantamento e di riscontro di una realtà locale, percorsa da tetraggini, fantasmi e bisbigli.

La perfezione degli elastici (Rizzoli, pp166) ora muove da un film per sviluppare gli stimoli in tematiche e figure narrative autonome, calate in una rabbrividente atmosfera nordica; ora impressiona, su fotogrammi di attori celebri (James Dean, Louise Brooks, Buster Keaton), un’inedita pellicola intrisa di oscure vicende d’esilio, competizione, angoscia e grigiore e rovina; ora, infine, sull’onda di nostalgiche rievocazioni, ricostruisce serate indimenticabili trascorse In piccoli cinema, con proiezioni di vecchi film che favoriscono, in ingenui e giovanissimi, spettatori, una completa identificazione con gli eroi di celluloide.

Tre specchi di fascinazione su cui scorrono tempi immobili in una sospensione metafisica, notti di Halloween, bar bui, sfondi squallidi nebbie e strade silenziose, uomini che si assomigliano, anime che invecchiano fra le loro fantasie, il misterioso schianto di un’auto nelle tenebre, il mondo in agguato dietro le gocce di pioggia del parabrezza.

Ci viene incontro la solitudine di una donna che ha paura della vita, mentre l’autrice si rivolge domande inquiete sul suo modo di dare ai personaggi un'"esistenza precaria di parole e immagini".

Possiamo imbatterci in chi arriva «troppo tardi di molte ore, cioè di molte vite» e in «monconi di lampioni arrugginiti» che "Si drizzano verso un’aura senza tempo tinta, cigolando come forche".

Compaiono l’Orco delle favole, dentro una rappresentazione, che va al di là del "tempo umano degli orologi", e una povera contadina, dallo «sberleffo rosso dei suoi capelli di Maddalena», abbruttita dalla miseria e condannata da un ambiente barbarico; un bambino che scopre, sgomento, la crudeltà della sorte e lo scemo di un villaggio ottocentesco, un derelitto che ha, come il Quasimodo Hughiano la sua Esmeralda.

Racconto di malinconia e di citazioni letterarie, di chimere, aloni dorati e cupe verità, del superomismo svettante e di appiattite foto dl gruppo, La perfezione degli elastici piega le più diffuse convenzioni narrative verso un risalto nuovo, una sorta di esplosiva miscela di tracce, un disordine dominato che diviene strumento catturante (sotto lo sguardo di una scrittrice che ha I suoi «diritti»), pronto a mettere d’accordo struggenti situazioni, aspre visioni di verghiana memoria e riflessioni dotte.

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Donna moderna, 19 novembre 1997

di Chicca Gagliardo

Che cosa ne sarebbe degli eroi dei film se vivessero davvero? Che cosa ne faremmo di loro se potessimo portarli cori noi, nel nostro mondo? Laura Pariani una risposta ce l’ha. E in questi nove racconti mette in scena i suoi amori cinematografici. Così il Frankenstein interpretato da Boris Karloff o il piccolo protagonista di Fanny e Alexander si trovano catapultati in uno scenario lombardo, molto diverso da quello a cui erano abituati. L’esperimento è curioso: in genere sono i registi a mutare le storie dei libri per adattarle alle leggi del grande schermo. In questo libro è il contrario: gli eroi di celluloide vengono intinti nell’inchiostro. E le immagini diventano parole scritte. Nove storie tratte dal grande schermo. E il cinema diventa letteratura.

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La rivista dei libri

di Pietro Cudini

"(...) A me pare ci sia, in questo libro, per ampi tratti, oltre alla "perfezione degli elastici" e a quella "del cinema", anche una perfezione, persino inattesa, di scrittura."

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L'Espresso

Bel film, vale un bel racconto

Roberto Cotroneo

Poche sere fa davano in televisione un vecchio film inglese, del 1961. Il titolo originale è: "The Innocents", in italiano è "Suspense". Non l'avevo mai visto e sono rimasto colpito. Intanto perché "The Innocents" (regia di Jack Clayton, con Debora Kerr) è la trasposizione cinematografica di "Giro di vite" di Henry James. Poi perché il film è molto più emozionante del libro. E' assai raro che un grande classico della letteratura possa essere migliorato da un film. Che Clayton sia meglio di un mostro sacro come Henry James. Ma così è. Ed Henry James lo avrebbe potuto immaginare. Lui stesso sapeva quanto fosse pensata, costruita con sottigliezza e con freddezza la trama narrativa del suo "Giro di vite". Ma il film di Clayton riserva una sorpresa in più che spiega in parte la sua bellezza: tra gli sceneggiatori c'è anche (e soprattutto) il nome di un grande scrittore come Truman Capote. Ora, questa lunga digressione è indispensabile se il libro da recensire è La perfezione degli elastici (e del cinema) di Laura Pariani. Un libro di racconti di una scrittrice che non ama mostrarsi e che pubblica libri raffinati. La Pariani ha usato un procedimento inverso. Non ha fatto come Truman Capote (che potrebbe tranquillamente essere il destinatario di uno dei suoi racconti), non è passata dal libro al film. Invece ha pubblicato racconti che partono dai film: trasposizioni su carta in forma di racconto, di pellicole famose, di attori che entrano nelle pagine e diventano qualcosa d'altro. James Dean e Buster Keaton, Gong Li e Johnny Weissmuller, Bartil Guve e Boris Karloff. Dunque trasposizioni, procedimenti contrari, dove Quasimodo si trasforma in uno scemo, ritardato, di un paesino lombardo, dove la lingua dialettale, nei primi racconti, si sostituisce a quel linguaggio universale che fa parte del cinema. C'è da dire che alcuni racconti sono veramente belli ("Nottambuli", ad esempio), è che i molti registri narrativi e linguistici della Pariani mostrano un virtuosismo non comune. Forse, in questo libro alla fine, senti che manca il cinema, che la suggestione della scrittura per vincere contro le immagini ha dovuto scompaginare tutto, cambiare le carte in tavola. Truman Capote sapeva che il "Giro di vite" poteva diventare un grande film rimanendo ciò che era. La Pariani ha dovuto cancellare il ricordo di James Dean, o di "Fanny e Alexander" per farne dei racconti. Fatti di immagini, certo, ma soltanto narrate.

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La perfezione degli elastici (e del cinema), Milano, Rizzoli, La Scala, 1997

Per i singoli racconti vedi la bibliografia

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