recensioni di La spada e la luna

Tuttolibri - La Stampa, 4 luglio 1996

Garcilaso senza radici

Laura Pariani tra gli inca

di Lorenzo Mondo

"La spada e la luna" un passato esotico, che sente il vento della storia grande di uno scontro epico di civiltà ed imperi

Ci si chiede, leggendo La spada e la luna di Laura Pariani, cosa ci sia in comune tra questo libro e i precedenti (Di corno e d’oro, Il pettine) che hanno definito la sua personalità di scrittrice. Erano quelli racconti di terra lombarda, perlopiù al femminile, messi in moto dal richiamo di una fotografia, di una canzone, di un minimo documento d’archivio, condotti sul filo di una lingua sapida, di forte impronta terragna. Gente perduta, scartata dalla storia, che proprio dalla condizione di elementare "naturalezza" sembra ricavare la sua, ora sofferta ora ribelle, esemplarità. Nulla, apparentemente, di più lontano da La spada e la luna che intanto si misura con il tessuto più disteso del romanzo; ma soprattutto si rivolge a un passato esotico, che sente il vento della storia grande, di uno scontro epico di civiltà e imperi.

E’ la vita di Garcilaso de la Vega el Inca, il primo vero scrittore dell’America coloniale. Figlio di un conquistatore e di una principessa incaica, ha raccontato nei suoi Commentari in lingua castigliana, con timbro plutarchiano, la fine traumatica di un mondo. Rendendo giustizia ai vinti, schiacciati dalla colonizzazione e dalla conversione forzosa, arriva a proporli come modello per la loro evoluta organizzazione statuale, la mansuetudine nativa, la religione naturaliter cristiana. Laura Pariani non trascura i casi salienti del personaggio: l’infanzia e l’adolescenza che interrogano con avidi sensi le vestigia materiali e spirituali dell’impero andino, l’esilio in Spagna dove studia e lotta inutilmente per ottenere la pienezza dei suoi diritti nobiliari, la guerra contro i moriscos che ripropone su scala minore gli orrori d’America, la vecchiaia ripiegata sulla meditazione e la scrittura (e non prescinde dalla fedeltà puntigliosa alle date -una per ogni capitolo- che restano per lei il graffito, l’increspatura capace di sottrarre gli uomini all’indeterminatezza del tempo). In realtà le interessa cogliere la vita intima di Garcilaso, indagare quello che si cela nel buio dell’anima, sotto la faccia levigata dell’integrazione.

Uomo senza radici, indio tra gli spagnoli e spagnolo tra gli indios, pensa continuamente alla terra perduta, che non può essere riconquistata attraversando l’oceano ma sprofondando nella memoria. Con questo, "salva" il suo popolo e rafforza la propria individualità, la seconda vista che gli permette di giudicare la Spagna oppressiva e inquisitoria, di provare compassione per mori e giudei, di eleggere lo sradicamento come "una patria da cui si vede ciò che agli uomini comuni è nascosto". Paradossalmente, e felicemente, quello che si presentava come un possibile romanzo di formazione diventa un elogio dell’incompiutezza: la stessa che i vasai peruviani lasciano nei disegni per impedire che il proprio spirito resti imprigionato in una forma conclusa. Contribuiscono all’impressione anche i capitoli che oscillano nel flash-back e girano su se stessi, riproponendo nelle diverse occasioni cronistiche, nella vivida concretezza di strade e interni, la stessa ossessiva verità. L’autrice li chiama "notturni", e non senza ragione, perché valgono a sottolineare la qualità lunare, femminea, di Garcilaso, il valore dell’ombra che protegge gli spiriti perseguitati e immaginosi (un’ombra che irraggia dalla figura della madre, sapiente e amorosa come la terra che non c’è più).

E’ forse qui che va cercato il tenue legame con i racconti di prima; insieme all’utilizzo di filastrocche, canzoni, poesie popolari e al gusto degli innesti linguistici che peccando in senso stretto contro la verosimiglianza, ricorrono allo spagnolo. Negli ultimi capitoli la Pariani immagina che Garcilaso intrattenga frequentazioni e scambi con Cervantes, inquieto spirito fraterno (mentre è certo che il Calderòn di La vita è sogno lesse con profitto i Commentari). E l’autore del Chisciotte gli parla del grande eretico inglese» con cui è in corrispondenza. E’ la parte meno risolta del libro, anche se appare tentante riflettere e giocare sul fatto straordinario che Garcilaso, Cervantes e Shakespeare morirono pressoché contemporaneamente la notte tra il 22 e il 23 aprile 1616. Gran magia delle date, prodigioso ordito di una storia altra che la letteratura è chiamata a raccontare e decifrare.

↑ TOP


L'Indice 1996, n. 4

di Rossella Bo

In un universo dominato da irriducibili dicotomie, Garcilaso de la Vega, detto El Inca (che fu storico del suo popolo nei "Comentarios reales", e anche narratore e traduttore del filosofo portoghese Leone Ebreo), rappresenta il diverso, l'Altro, colui che in potenza possiede le chiavi per coniugare la cultura di hombre natural che gli è propria e quella spagnola, intrisa dell'ossessiva ricerca della limpieza de sangre, una nobiltà del sangue in nome della quale si sacrifica ogni intrinseca potenzialità individuale.

Questa alterità è evidente già nella sua natura di meticcio, discendente illegittimo di un capitano spagnolo - padre inesistente e distaccato - e di una saggia e amorevole principessa india: sradicato in giovane età dalla propria terra peruviana, Garcilaso (il cui nome originario è G¢mez), approda nella Spagna della seconda metà del Cinquecento dove tenta di conciliarsi con le regole del vivere sociale della sua nuova patria, a partire dalla lingua, dai costumi per finire al cambiamento del proprio nome.

Per essere accettato combatte una guerra non sua, si macchia delle immancabili stragi che l'essere soldato - e capitano per giunta - comporta: ma l'auspicato radicamento della sua anima in terra spagnola non avviene, e il filosofeggiante mestizo si emargina in un'esistenza appartata, addolcita solamente dalla presenza della malinconica schiava Beatriz e del loro figlio Diego.Si dedica quindi agli studi, alla "civil conversazione" con spiriti altrettanto illuminati del suo: l'amico Xan Pedreira, in gioventù, e Miguel de Saavedra, detto Cervantes, negli anni della vecchiaia (che tra il resto costituisce anche il trait d'union ideale con Shakespeare, "l'eretico inglese"; per una singolare coincidenza che mette in luce la celeste corrispondenza tra le loro anime, i tre scrittori condividono la data della morte e l'epigrafe tombale).Non cessa mai la sua ricerca volta a smascherare le origini del dolore e dell'infelicità umana, n‚ mai viene meno alla sua mente il vivido ricordo del suo popolo, ormai annientato, ricordo che i lettori assaporano nel continuo richiamo alla profondità religiosa, fatta di "ombre palpitanti", della cultura incaica, così come nelle riuscite figure della nobile madre ChimpuOcclo, del vecchio servo Otaz£, ma anche nelle minuziose e quotidiane rievocazioni di semplici giochi tra bimbi, di campi di mais, di animali colorati ed esotici.

Nessun ponte (fatta salva l'eccezionalità dell'incontro con l'evoluto Bartolomé de las Casas) può dunque essere gettato tra la Spagna e il NuovoMondo (e, in senso lato, tra culture differenti) a meno che non si prendano le mosse da un profondo desiderio di conoscenza della diversità, di ciò che è altro da noi ma non per questo non ci somiglia: "La base della virtù è il riconoscimento degli altri, della loro diversità. È l'uomo che rende umano l'uomo".La conclusione a cui giunge la meditazione di Garcilaso (formulata attraverso una serie di baroccheggianti metafore: il Doppio, lo Specchio...), circa lo svolgersi del destino dell'uomo, individua nell'eterno alternarsi di Luce e "scurità", il paradigma che regge il mondo: "Tutto svanisce - sono parole del protagonista -, farfalle, fiori, uccelli, conchiglie; tutto si sviluppa dispiegando le risorse della propria combinatoria, per poi dissolversi e annientarsi; tutte le faccende umane, anche le più belle, lingue, istituzioni, capolavori artistici, tutto è effimero, ma la vita non finisce".All'interno di un tale ciclo, rifiutare l'altro (lo straniero, il diverso, il deforme, come nel caso dello sciancato Diego) per paura, per ignoranza, significa rifiutare l'Altro che è in noi, precludendosi la via dell'equilibrio, dell'armonizzazione del nostro essere, rifiutare, in una parola, la nostra stessa umanità.

Storia densissima di desideri e sogni, a occhi aperti e chiusi, quella diGarcilaso, di cui si fa biografo fittizio il mite e devoto figlio naturale, e che Laura Pariani (al suo primo romanzo, dopo i fortunati racconti "Di corno o d'oro", 1993) conduce con mano sicura - fatta salva qualche esitazione nella prima parte, invero più faticosa, della narrazione - tra ardite mescolanze linguistiche e sotto la luce di una luna (il sottotitolo dell'opera recita infatti "Quattordici notturni") favorevole all'intessersi di trame deliziose: "Alla luce della luna... si può fantasticare, ci si può nascondere, perché essa ci protegge con la carezza della fantasia e l'ardore dei desideri".

↑ TOP

La spada e la luna. Quattordici notturni, Palermo, Sellerio, La memoria n. 345, 1995.

vai al libro