recensioni di La straduzione

La Gazzetta del Sud, 5 maggio 2004

Un esule volontario sedotto dall'avventura

Laura Pariani ripercorre a Buenos Aires la storia di un giovane sfuggito all’invasione nazista

di Giuseppe Amoroso

La Germania ha appena invaso la Polonia. Lo scrittore Witold Gombrowicz sta per lasciare Buenos Aires, dove è sbarcato da qualche giorno. Nella notte placida di stelle lo assale l'angoscia che lo induce a fermarsi e a ricominciare in un luogo di cui ignora tutto. All'orizzonte, la nave è ormai simile a uno di quei rozzi disegni di bambini. Senza denaro, irretito in un gioco di allucinazioni, Witold va incontro alla città consumando una grottesca recita di sopravvivenza. La Straduzione di Laura Pariani è la storia di questo volontario esule, sedotto dall'avventura, e della stessa autrice che ritrova, molti anni dopo, nella stessa capitale, gli itinerari del protagonista con pagine che verticalmente tagliano l'orizzontale svolgimento di quella inabissata vicenda e esplorano i paesaggi di "certe antiche ferite", raccogliendo aneddoti e "reliquie di secoli". Fogli di diario sciorinano le confessioni di Laura Pariani che descrive, riflette, batte i "percorsi obbligati" dei personaggi, tra cui anche Borges col suo "malefico" Libro della sabbia.

Umili, diseredati, facce scavate, uomini che vengono da "anni di naufragi" sono il coro, ora sonoro, ora silenzioso, stretto intorno a Witold il quale, con il compatriota Tawoski, vive di espedienti, si sfama partecipando ai funerali di sconosciuti e comincia pure a scoprire la vita ricca dell’Argentina del tempo. Si accendono scene di una vivacità esplosiva, con risvolti di violenza e morte, mentre i personaggi, inconsapevoli attori di un copione scritto altrove, si moltiplicano spostando incessantemente il baricentro della trama che rimane così aperta a imprevedibili sbocchi. Compaiono Arlt, eccentrico inventore, ossessionato dai soldi, "pedone instancabile dell’alba" e scrittore sui tavoli delle latterie, e un gruppo di sartine intente a cucire sul ballatoio nella buona stagione; Mattia, giovane atletico con il sogno di divenire pugile, e Fijman, "ultimo discendente di re David", poeta cercatore d’ignoto, impegnato a visitare tutti i mondi possibili; due giovani gemelli capaci di scherzare con il nulla e la lunatica donna Lucia, abbandonata dal marito e come cancellata dai vivi; l'italiano Caffaratti che snocciola il suo "rosario di guai", e i tanti giovani incontrati e perduti, coperti da una "cappa di povertà". Ma vi sono pure intellettuali salottieri, "facce irrigidite" intorno a un tavolo come in attesa del via libera di un "fotografo scomparso sotto il suo straccio nero".

Scende Witold nel suo inferno, stretto dalla miseria più nera, e pensa di "essere stato derubato nel corso della vita di una quantità enorme di cose preziose". Attraversa una realtà degradata, mefitica: interni sordidi, bar malfamati, balere e squallide palestre, ambienti cupi che paiono lanciare segreti messaggi. Da questo universo sbarrato nella sua dannazione escono le note del sensuale tango, le famigliole sedute sulle panchine del parco a aspettare l’arrivo del gelataio, le schermaglie galanti di ragazzi. Frasi staccate, "burattinesche", sono prese al volo dal racconto che le diffonde come un trofeo: e le voci sospese fanno la felicità della narrazione gonfia di tutti gli umori dell’esistere, divisa tra l'ascolto della musica di dentro e i grandi movimenti di massa, il sorgere del peronismo, il colpo di stato, la propaganda populista di Evita, l'incombere sulla città di una caliginosa minaccia. Tumulti, insidie, pericoli che possono pure depositarsi in una foto ma non trovarvi un racconto completo: sfuggono un cielo turchino d'inverno, l'insidia vagante nell'aria, mentre la scrittrice percorre il quartiere di San Telmo, va in caccia del primo, giovanile soggiorno in Argentina e viene colpita dagli occhi disperati di un prigioniero portato via dai soldati.

Trascinato dal sogno di veder tradotto in Argentina il suo romanzo Ferdyduke, il protagonista si immerge in un mondo "barbaro di colori" e di ricordi, declinato dalla partitura a due voci del libro. Scrittore a cui nessuno crede, l'uomo patisce la propria vocazione di "perdente", e si inoltra in un "limbo" nel quale si accorge di cambiare "una farsa per un’altra", in compagnia di espatriati, "detriti" depositati dalle dittature sulle rive del Rio de la Plata. Lo sostiene sempre il progetto di tradurre in castellano la sua opera. Ma l'impresa, a causa della sua difettosa conoscenza della lingua, appare insormontabile. Scatta allora una strana gara di solidarietà che coinvolge un gruppo di amici: discuteranno ogni parola del testo per trovare quella esatta, senza tralasciare l'idea di inventare una lingua nuova.

Romanzo di speranze sfidate nella fiera cigolante della vita, La straduzione segue ogni destino nel suo incurvarsi verso le più impensate occasioni, distilla la tristezza di luoghi ostili, del passare del tempo e affida tutto al dono del racconto: il senso della scrittura che deve conquistare la più ampia quota di eternità.

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Tuttolibri, La Stampa, 22 maggio 2004

Tra i vicoli argentini inseguendo l’ombra dell’esule Gombrowicz

«La straduzione» di Laura Pariani: recupero di un tempo perduto, ma anche gioco di finzione borgesiana con quella che fu (o potrebbe essere stata) la lunga parentesi dello scrittore polacco, fra il 1939 e il 1963

di Sergio Pent

Il dispatrio, la disperanza, la straduzione: vocaboli di letteratura lacerata, tra esilio e "saudade", suoni che riportano a galla mitologie già decantate nell'album di serie A delle passioni letterarie: Soriano, Puig, e prima ancora Donoso, Onetti, Arlt. La landa latinoamericana ricorda, a tratti, la Parigi proletaria dei grandi esuli - o dei grandi sognatori - che magari senza conoscersi hanno creato nei decenni il percorso di una corrispondenza totale tra arte ed esistenza, memoria e fantasia.

Tra memoria e fantasia - ma anche tra arte e vita quotidiana, si sviluppa appunto il nuovo romanzo "straniero" di Laura Pariani, La straduzione, dedicato - come una sorta di ricerca delle radici private e letterarie - agli anni argentini del grande scrittore polacco Witold Gombrowicz. Torna in Argentina la Pariani, a Buenos Aires, dopo la parentesi ancestrale delle storie di Quando Dio ballava il tango: e vi torna da esule immagonita dal ricordo, allorché - quindicenne nel 1966 - strappò il sipario dell'adolescenza col distacco da un mondo che le sarebbe sempre rimasto nell'anima. Lettera a un figlio che non sa, potremmo anche dire, vista l'alternanza dei capitoli dedicati a Gombrowicz con quelli in cui l'autrice ripercorre le tappe del passato rivolgendosi al figlio Luca, "che mai ha visto Buenos Aires". Recupero di un tempo perduto, ma anche - soprattutto - gioco di finzione borgesiana con quella che fu - o potrebbe essere stata - la lunga parentesi d'esilio di Gombrowicz, giunto da turista in Argentina nel 1939 e rimastovi fino al 1963, lavorando come impiegato di banca e cercando una sua ardua collocazione di intellettuale. Quando Hitler invase la Polonia, Witold rinunciò a salire sul piroscafo per l'Europa, si perse tra i vicoli odorosi di vite ordinarie di Buenos Aires, visse il suo dispatrio volontario in alloggetti fatiscenti, povero ed emarginato in un paese allora ricco, già autore di un grande libro di maturazione a rovescio, Ferdydurke.

Il racconto ripercorre dunque le possibili tappe di un destino, in quel terreno insidioso in cui realtà e mistificazione potrebbero diventare piatta agiografia. Al contrario, dalle pagine della Pariani emerge un percorso di vita tutto originale e assai poco italiano, con la mano della memoria protèsa verso gli autori locali citati in apertura, Soriano su tutti. Seguiamo l'esule Gombrowicz alle prese con l'aristocrazia intellettuale dei Borges e dei Bioy Casares che rifiutano la sua "modesta" presenza di profugo immalinconito e senza biglietto da visita; seguiamo le sue peripezie iniziali per sfamarsi con l'amico Waclaw, infilandosi ai funerali in veste di parenti sconosciuti per poter acquietare lo stomaco. Attraversiamo - mentre l'autrice ripercorre per sé e per la sua quiete postuma i luoghi eletti di una giovinezza innamorata - tutte le tappe che portarono Gombrowicz a "stradurre" il suo romanzo grazie all'aiuto farsesco, da osteria, di scrittori che tra loro si capivano coi gesti della grande letteratura: i pochi vocaboli castellani di Witold assommati a quelli del poeta Virginio Pinero e di altri suoi compagni, divennero un libro tradotto e pubblicato, mentre lontano la guerra trasformava il placido percorso della Storia. Ma ciò che emerge, su tutto, è il contatto stretto di Gombrowicz con la vita, con la gente, nel suo tentativo isolato di penetrare il paesaggio aperto dell'Argentina, di conoscere il profumo delle grandi idee nell'incontro breve ma folgorante con Roberto Arlt.

E spicca infine, nel contesto di un percorso umano esemplare nella sua genuinità intellettuale, l'amicizia - struggente - col giovanissimo aspirante pugile di origini italiane, Mattia, che morirà cercando nei bassifondi del compromesso la via della gloria. Nei suoi anni argentini il grande polacco riuscirà invece a imboccare la strada aperta verso la nostalgia - che diverrà poi materia d'amore dei suoi Diari ed è la materia stessa del recupero della Pariani - ma riuscirà, anche, a smascherare la Grande Immaturità del genere umano che già era alla base del Ferdydurke.

«Se nessuna ferita autentica fa sanguinare lo scrittore, non può esserci vita in quel che scriverà». Il romanzo della Pariani è un omaggio al passo felpato ma inesorabile della memoria, è un omaggio - soprattutto - ai luoghi che, abitati dai grandi scrittori, ne conservano l'impronta, il profumo, il ritmo di tango delle grandi malinconie.

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Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2004

Un tango per Gombrowicz

Laura Pariani "rilegge" l'avventura di esule dell'autore polacco

di Giovanni Pacchiano

Sul duplice e alternato registro di un frammento di biografia di un autore celebre e dei vissuti di chi ne rievoca le vicende scrivendo, Laura Pariani s'era già provata, in La foto di Orta (2002), narrando della breve vacanza di Nietzsche e Lou Andreas Salomé sul lago omonimo. Oggi, nel suo ultimo romanzo, La straduzione, analogo procedimento è applicato a uno dei più famosi scrittori polacchi del Novecento, Witold Gombrowicz. E alla prima parte del suo lunghissimo soggiorno argentino (gli anni 1939-47), terminato nel 1963. Con un di più: perché la stessa Pariani, arrivata quindicenne in Argentina, nel 1966, con la madre, vi visse anni. C'è, dunque, una complicata amalgama di ragioni intellettuali e di ragioni del cuore che nel romanzo (poiché, nonostante il lato biografico, di romanzo si tratta, sortendone un Gombrowicz "parianizzato", meno eccentrico, meno palesemente geniale e con meno punte) coesistono. Fondate sull'incrocio continuo di tre livelli di rappresentazione: la Buenos Aires che apparve al trentacinquenne Gombrowicz (giunto in Argentina nella tarda estate del 1939 come partecipante al viaggio inaugurale del transatlantico Chrobry, sulla rotta Gdynia-Danzica-Buenos Aires, e ivi rimasto come esule), quella vista dagli occhi della quindicenne Laura, e l'ultima Buenos Aires, la città di oggi, ritrovata dalla scrittrice durante una recente vacanza ("Quando sono stanca della giostra dei libri, devo venire qui in Argentina a riprendere il fiato. Perché l'Argentina è la mia boccata di ossigeno").

Ma vivono, del libro, un libro coinvolgente che risente un poco della sua costruzione a strappi, e tuttavia induce la curiosità a una lettura (o rilettura) di un grande del Novecento, soprattutto per due motivi. Il primo: la nuda e tormentosa vicenda dell'esule, senza una lira (aveva in tutto 96 dollari al suo sbarco), ramingo per pensioncine e baracche, in cerca di lavori provvisori e umili. Lui, figlio di una famiglia di piccola nobiltà terriera polacca, abituato, da giovane, a farsi servire. Sbalzato in un'esistenza di espedienti, e però ravvivata dagli incontri, ben descritti dalla Pariani, con una folla policroma di personaggi di tutte le classi sociali, dagli intellettuali, Borges compreso, alle ricche signore che fanno beneficenza, alla gente del popolo, agli emarginati. Mentre attende alla faticosa traduzione (di qui il titolo) del suo romanzo, Ferdydurke, in una lingua che non è la sua. L'altro motivo: la riflessione a due voci su ragioni e senso del narrare. Due esempi: "Per me raccontare storie è semplicemente l'unica cosa che posso fare nella vita", afferma la Pariani con sincerità controcorrente. Mentre fa dire a Gombrowicz: "I maneggioni della letteratura non sanno che farsene di chi si stacca dai loro soliti modi". Vale anche per oggi, e di più; sfortunatamente.

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L'Unità', 6 luglio 2004

Questo Gombrowicz sembra Pasolini

di Angelo Guglielmi

Laura Pariani ama Buenos Aires e qui confessa al figlio questo suo amore (per trasmetterlo o solo testimoniarlo?). La ama perché sono là le sue origini (vi abitava un nonno) e a quindici anni (nel 1966) vi fece il primo viaggio. Era l’anno del golpe del generale Onganía e lei appena arrivata assistette, nel terrore, all’arresto di un professore universitario, il terrore era negli occhi dell’uomo e nei suoi. Ma subito lo dimenticò (quel terrore), distratta e affascinata dai grandi cieli azzurri, il rumore vicino del Río de la Plata, il bianco delle facciate dei palazzi, le strade ampie, la folla che vi si accalcava, le luci della sera, il chiasso felice dei ragazzi, la musica che esce dalle finestre e dai ritrovi. Quella volta trattenuta dalla madre, donna spregiudicata ma senza abbandoni, la sua felicità fu costretta a rubarla passeggiando per ore e ore, infilandosi nelle strette strade dei quartieri più vecchi abitate da emigranti (che nascondevano l’orrore della propria miseria nel convincimento che presto l’avrebbero abbandonata), ascoltando il nonno raccontare antiche storie di ardimenti e sognando come nel paese in cui era nata (e da dove proveniva) non aveva mai sognato.

Trentasette anni dopo torna a Buenos Aires, certo spinta dal ricordo del suo primo viaggio di quindicenne, ma anche consapevole che se il filo del ricordo è sufficiente a confermarle l’innamoramento per la città, non è sufficiente a consentirlo di viverlo con quell’intensità che i grandi amori pretendono. Così arricchisce la traccia di quel ricordo con la traccia di altri ricordi non suoi, anzi di un’altra vita, la vita di un grande uomo al quale lei pur modesta sente di assomigliare e di cui ha letto tutti i libri: Witold Gombrowicz. Anche lo scrittore polacco, ma lui un po’ casualmente, al seguito di un viaggio inaugurale, sbarcò a Buenos Aires e lì, in quella metropoli sconosciuta, senza motivo, per “pazzia” dice lui, al momento del ritorno, già con la valigia in mano, decise di fermarsi e vi rimase per oltre vent’anni. Del resto correva l’anno 1939, la vigilia dell’occupazione nazista del suo Paese. Ma forse non è nemmeno questa la ragione della sua “pazza” decisione: è piuttosto la sua voglia di libertà, la necessità di non essere condizionato nelle scelte di vita e di scrittore né da retaggi familiari né da altri obblighi di appartenenza. A Parigi, già così colta, non si sarebbe mai fermato; aveva bisogno di un Paese appena nato, di una terra di emigrazione, dove tutto può accadere ma nessuno sa cosa accade. Né lo scoraggia non conoscere la lingua e non avere un soldo (un solo soldo) in tasca: e chissà forse affida proprio a questa povertà assoluta la sperimentazione di quel suo bisogno di libertà.

Laura Pariani decide di ripercorrere i suoi passi, intando istallandosi nella stessa casa (in calle Venezuela 615, al centro del quartiere di San Telmo) dove lui visse per buona parte del suo soggiorno argentino. Lo vede gironzolare per il vecchio quartiere allora abitati da emigranti italiani, entrare in questo o quel bar per consumare un cornetto e soprattutto alla ricerca di qualcuno che come lui abbia la necessità di risolvere il problema del pasto quotidiano. Buona soluzione è andare nella casa dei morti (di cui urge avere informazioni tempestive), dove – è l’usanza del luogo – al termine della veglia funebre si passa alla stanza accanto convenientemente preparata in cui si compensa il dolore (e riafferma la vita) mangiando. In quelle case Witold si trova a suo agio; se scopre vero dolore sa che si intreccia sempre a nuove attese – d’altra parte non è proprio degli argentini di trovarsi sempre un passo avanti (consapevolmente o inconsapevolmente) rispetto a ciò che in quel momento stanno vivendo?... E ancora qui, come nei poveri caffè e negli altri malridotti locali che frequenta, incontra disgraziati come lui con i quali chiacchiera senza disperazione (anzi, con un po’ d’orgoglio) della loro condizione di indigenti. E a chi gli chiede perché lui, un europeo così gentile, solidarizza con gente così, risponde: «...perché mi piacciono le catapecchie, le insegne delle pizzerie che cadono a pezzi, la gente che non ha altro che venti centesimi per cavarsela ma sa ridere della vita». E oltre ridere, potrebbe aggiungere, sa sperare e sognare come i tanti ragazzi con cui si accompagna e solidarizza, di cui ama l’innocenza che traspare nei loro volti segnati, da quel primo (ragazzo) in cui si imbatté sull’uscio della pensione in cui abitò appena sceso dalla nave che lo aveva portato a Buenos Aires, fino a Mattia che, sbarcato allo stesso porto proveniente dall’Italia, non trova traccia del padre che lì avrebbe dovuto aspettarlo, vive la triste vita dell’orfanotrofio, finalmente ne esce e, approfittando della sua corporatura di gigante, sogna di diventare pugile, combatte nella parte del perdente in alcuni match truccati e a soli diciannove anni cade o si lascia cadere dal tetto della Biblioteca Nazionale dove non si sa perché è salito.

Laura Pariani segue Gombrowicz (che per lei è sempre Witold) con la dedizione moltiplicata frutto dei suoi tre amori (o nostalgie): per Witold, per Buenos Aires, per il suo viaggio di quindicenne. Sono tre realtà che hanno molto in comune, ciascuna incentrata sulla ricerca di orizzonti lontani e l’esercizio della spregiudicatezza e del coraggio. Witold resiste a ogni soluzione vicina, se pure alla fine cede a impiegarsi in banca. Ma il suo destino è applicarsi all’inutile mestiere dello scrittore: e scrivere per chi vive (amandola) in una città sconfinata e sfuggente, è “fare incursioni dietro le linee per catturare la vita”.

Il ritratto che la Pariani incide di Gombrowicz è certo affascinante, ma forse (se pur leggermente) sbilanciato. Insistendo sulla sua (di Witold) forte inclinazione alla deriva, e all’amore per i luoghi più miserabili della città, così ricchi di umanità e di vita vissuta, ne costruisce un personaggio tanto per intenderci tra il nostro Penna e Pasolini trascurando (o comunque lasciando in ombra) gli aspetti più allegri della sua personalità e anche del suo stile, quel morso aspro con cui mastica il mondo (cui lui pure appartiene), ridicolizzandone la perentorietà e sputandone divertito l’insensatezza. Ma è una colpa breve da cui la Pariani si riscatta con l’ultima parte del suo fantastico racconto-confessione, quando ci fa assistere alla tratuzione in castellano (lo spagnolo delle colonie) del romanzo Ferdydurke che un improvvido e intelligente editore affida all’autore stesso. Ma Witold non ha nessuna pratica della lingua spagnola e intorno a lui non vi è nessuno che conosca il polacco. Che fare? Decide di rifiutare l’imprevisto (e quanto atteso) incarico. Ma ne viene distorto dagli amici del bar (un buio sottoscala tra birre e tavole da biliardo) che si offrono di aiutarlo: lui indicherà loro di volta in volta il senso delle parole (quel che aveva voluto dire e fare) e loro gli troveranno la parola propria (il termine espressivamente pi fedele). Così la risata di una signora grassa diventa “scoppiò in un riso di cameriera pizzicata nel sedere”; quel grosso sedere che la sedia non riusciva a contenere diventa “seduto in maniera totalmente sedutaria”; mentre per il naso molto marcato di un professore, un giovane giocatore di biliardo, sospendendo per un attimo la partita, suggerisce “un naso inespugnabile”. Le sedute di traduzione sono assolutamente esilaranti: con gli amici del bar, in genere di estrazione popolare (e lettori, se mai leggevano, di giornali e di fumetti), che gareggiavano a chi trovava il corrispettivo linguistico più felice e Witold che ascoltava compiaciuto, anche lui felice che si mostrasse possibile, grazie a quei suoi compagni improvvisati, tradurre da una lingua così incomprensibile come il polacco (anche graficamente aspra e rugosa) e soprattutto dal suo polacco già stralunato da una carica di grottesco deformante.

Alla fine Ferdydurke esce: Laura Pariani ne registra l’eco ridotta (in pratica l’insuccesso), immagina che Witold, pur tentato, si astiene dal chiedere ai conoscenti un giudizio temendo di sentirsi rispondere che «non ha avuto ancora il tempo di leggerlo. Che però lo tiene sul comodino...»; poi, con la notte che sale, scoppia in «un pianto senza singhiozzi, mite e riposante». «Chi vuole può anche non leggermi. Io non chiedo a nessuno di restare con me. Né prometto pomi d’oro a chi mi leggerà. Il mio compito è sedere al tavolo in questa stanza di pensione e battere sui tasti della mia macchina da scrivere per mettere dentro la pagina più eternità possibile».

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La straduzione, Milano, Rizzoli, La Scala, aprile 2004

Altre edizioni: Gombrowicz Buenos Aires, Verlag C. H. Beck, München 2006.